Cass. sez. II 14.05.2019 n. 37478 RAPINA FILATELIA E NUMISMATICA

In allegato la sentenza della Seconda Sezione Penale della Cassazione che ha deciso definitivamente su un processo che ha avuto risonanza a Forlì nel quale in primo grado tutti e quattro gli imputati erano stati condannati a 8 anni di reclusione.

In Appello erano stati assolti i due “mandanti” concorrenti morali, mentre erano state inasprite le pene fino a 10 anni di reclusione per gli altri due imputati esecutori materiali, tutto questo dopo lunghissime custodie cautelari in carcere.

In Cassazione è stato dichiarato inammissibile il ricorso del PG contro gli imputati assolti, rilevando la Corte che giustamente la Corte Territoriale aveva sentito come teste assistito un ex indagato per il medesimo reato la cui posizione era stata archiviata e le cui dichiarazioni dovevano essere valutate alla stregua dell’art. 192 c.p.p.

La Cassazione ha quindi confermato la condanna nei confronti di uno degli imputati, mentre ha annullato con rinvio per difetto di motivazione e mancato riscontro esterno della propalazioni accusatorie nei confronti dell’altro imputato, confermando il principio di diritto affermato dalle SU che l’ex indagato per il medesimo reato non può mai essere sentito come teste “puro” sempre quale teste “assistito”, questione che era stato oggetto di impugnazione della Procura Generale di Bologna ma non condivisa dal Procuratore della Cassazione che ha concluso per la dichiarazione di inammissibilità del ricorso del Procuratore a quo.

Un tale sviluppo processuale pare dovere mettere in guardia dall’uso assai prolungato della custodia cautelare in carcere in processi a forte contenuto indiziario che possono, come è avvenuto, concludersi con esiti ampiamente liberatori, mentre per l’imputato per cui è stata annullata la condanna a 6 anni dai fatti e a 4 anni da quando sono iniziate le indagini nei suoi confronti (circostanza altra che dovrebbe indurre alla massima cautela) siamo ancore abbastanza lontani da una sentenza definitiva.

Filippo Poggi

(In)applicabilità della sospensione feriale dei termini

Nei giudizi aventi ad oggetto il riconoscimento della protezione internazionale del cittadino straniero, l’inapplicabilità del principio della sospensione dei termini feriali, introdotta con l’art. 35-bis, comma 14, d.lgs. n. 25/2008, non trova applicazione rispetto ai ricorsi avverso decisioni delle Commissioni territoriali emesse e comunicate (o notificate) anteriormente alla data di entrata in vigore della norma citata.  

Così ha deciso la Corte di Cassazione, sez. VI Civile – 1, ordinanza n. 22304/19; depositata il 5 settembre.

Ragioni della decisione

Il Tribunale di Venezia ha dichiarato inammissibile per tardività il ricorso proposto il 22/8/2017 da A.D. avverso il provvedimento notificato il 21/7/2017 della Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale ai sensi del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35, avuto riguardo alla non applicazione della sospensione feriale dei termini per tali procedimenti d’impugnazione, come disposto dall’art.35-bis, comma 14. Il predetto art. 35-bis, introdotto dal D.L. n. 13 del 2017.

Avverso questa pronuncia ricorre per cassazione il cittadino straniero che denuncia la violazione del D.Lgs. n. 25 del 2008.

Il ricorso, secondo l’avviso della Cassazione, è manifestamente fondato.

Nel nuovo regime introdotto dal D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35-bis, comma 14, non opera più la sospensione feriale dei termini. Tale disciplina, come rilevato pure dal giudice a quo, si applica alle cause e ai procedimenti giudiziari sorti dopo il centottantesimo giorno dall’entrata in vigore del nuovo modello processuale, dovendosi, tuttavia, escludere un’applicazione retroattiva del regime derogatorio della sospensione dei termini feriali. Alla data di notifica del provvedimento impugnato il nuovo regime derogatorio della sospensione dei termini feriali non poteva essere applicato perché non ancora in vigore.

In conclusione, poiché alla data di notifica del provvedimento impugnato il regime applicabile era quello antevigente, fondato sulla sospensione dei termini feriali, il ricorso deve ritenersi proposto tempestivamente.

Fonte: D&G

Settembre 2019

No Tav: condanna per interruzione di pubblico servizio

Occupare i binari di una stazione ferroviaria, e bloccare così alcuni treni, vale una condanna per “interruzione di pubblico servizio”. Assolutamente secondario, osservano i giudici, il fatto che il disagio arrecato sia stato minimo (Cassazione, sentenza n. 37456/19, sez. Feriale Penale).

L’episodio si è verificato a marzo del 2012 nella stazione di Torino ‘Porta Nuova’, ‘invasa’ in quella mattinata da numerosi partecipanti – soprattutto studenti – a una manifestazione ‘no Tav’. In sostanza, circa trecento persone hanno prima marciato in corteo nel centro di Torino, come previsto, per poi, all’improvviso, compiere un blitz non previsto e non autorizzato nella stazione ferroviaria, occupando i binari – anche grazie a bandiere e striscioni – col chiaro obiettivo di bloccare un ‘Frecciarossa’.
Immaginabili le polemiche. Inevitabili però gli strascichi giudiziari. In particolare, quattro persone finiscono sotto processo perché ritenuti responsabili di «interruzione di pubblico servizio». A sorpresa, però, i giudici del Tribunale di Torino, una volta ricostruito nei dettagli l’episodio, sanciscono la loro “non punibilità” per “particolare tenuità del fatto”.

In primo grado si osserva che «la manifestazione si è sempre mantenuta pacifica e non è degenerata in alcuna attività violenta contro persone o cose» sottolineando «la limitata durata della interruzione del traffico ferroviario; la modesta entità delle conseguenze immediate (consistite in un ritardo di sei minuti per un treno regionale e nel mancato ricovero di un treno “Frecciarossa”, senza disagi per i passeggeri; la particolare tenuità delle azioni singolarmente realizzate da ciascuno dei soggetti sotto processo (attraversamento; breve soffermarsi; sedersi sulla pensilina) e la loro incensuratezza.

Visione opposta, invece, quella dei giudici della Corte d’appello di Torino, i quali accolgono le obiezioni mosse dalla Procura e ritengono colpevoli i quattro manifestanti per il reato di «interruzione di pubblico servizio».

A questo proposito, viene evidenziato il fatto che «in violazione del programma comunicato alle autorità, il corteo aveva colto di sorpresa le forze dell’ordine…», senza dimenticare poi «il coinvolgimento nella manifestazione di molte persone (circa 300)».

A chiudere il fronte giudiziario provvede la Cassazione, confermando in toto valutazioni e decisione della Corte d’appello. Nessun dubbio, quindi, sulla legittimità della condanna dei quattro manifestanti.

In primo luogo i magistrati ribadiscono che ci si trova di fronte a un evidente caso di «interruzione di pubblico servizio». Subito dopo essi aggiungono che è evidente il «dolo». «La condotta è stata realizzata», viene osservato, «nell’ambito di una manifestazione contro il trasporto ferroviario veloce, …in assenza di accordi con le forze dell’ordine o con il personale ferroviario volti ad individuare un lasso temporale che consentisse una occupazione simbolica priva di conseguente e con la finalità di affermare la propria decisa contrarietà alla alta velocità».

Per quanto concerne poi la gravità dell’episodio incriminato, dalla Cassazione sottolineano che «l’alterazione della regolarità del servizio non può essere esclusa sulla sorta di un lieve ritardo nella partenza del mezzo».

Fonte: D&G

Settembre 2019

Codice rosso

In allegato il testo della Legge 19.07.2019 n. 173 e le prime disposizioni applicative e direttive alla polizia giudiziaria emanate dal Procuratore Distrettuale di Bologna.

Le nuove norme meritano una attenta riflessione e attingono a molte parti del codice penale e del codice di procedura penale.

La prima impressione e quella di un esasperato rigorismo sanzionatorio che ha condotto ad aumentare significativamente le pene edittali per tutti i reati sessuali, di maltrattamento e stalking.

Il tutto come ben si precisa, senza investire un euro, in quanto tutti nuovi adempimenti devono avvenire senza nuovi oneri a carico della finanza pubblica.

Una norma che ben rappresenta questo diritto penale durissimo e con poca possibilità di riabilitazione è quella che impone nei reati sessuali, nei maltrattamenti e nello stalking quando sia concessa la sospensione condizionale (quindi condotte non gravi sostanzialmente moleste) che il condannato sia sempre onerato, a pena di revoca del beneficio (modifica dell’art. 165 del codice penale), di frequentare corsi di assistenza psicologica o di recupero (non meglio definiti e individuati) a sue spese con evidenti profili di illegittimità costituzionale (anche per la sua totale indeterminatezza quanto a modi e durata).

Molto condivisibile invece l’introduzione dell’art. 64-bis delle disp. att. c.p.p. che onera il giudice penale di comunicare ogni provvedimento cautelare o decisorio al giudice civile competente per i procedimenti di separazione personale tra i coniugi, cause relative ai figli di minore età o all’esercizio della potestà (sic) genitoriale (art. 14 della Legge).

Insomma a prima vista oltre che Codice, almeno a mio giudizio, anche Allarme Rosso.

Filippo Poggi

Al vaglio del giudice penale l’ordine di rimpatrio emesso dal Questore

Così ribadito dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 2365/19, depositata il 18 gennaio.

Il Supremo Collegio ribadisce che può essere disapplicato dal giudice penale il solo provvedimento di rimpatrio emesso dal Questore se privo di motivazione o insufficientemente motivato. Infatti il giudice penale deve procedere alla verifica della conformità del provvedimento alle prescrizioni di legge nelle quali rientra «l’obbligo di motivazione sugli elementi da cui viene desunto il giudizio di pericolosità» del destinatario dell’ordine. Di conseguenza il medesimo Giudice non può «sostituire la propria valutazione al giudizio di pericolosità espresso dal Questore, in quanto, in tal modo, eserciterebbe un inammissibile sindacato giurisdizionale di merito sull’atto amministrativo mentre gli è consentito soltanto un sindacato di legittimità, consistente nella verifica della conformità del provvedimento alle prescrizioni di legge». Ebbene, il provvedimento questorile, vertendo su un giudizio prognostico di pericolosità sociale dell’imputato, deve riferirsi a elementi di fatto dediti alla commissione di reati che possano dunque offendere o mettere in pericolo la sicurezza e tranquillità pubblica.
Nel caso di specie, poiché attraverso il provvedimento questorile emergevano solo generiche espressioni prive di riferimenti a fatti concreti e modalità di condotte prive di rilevanza penale, la S.C. annulla la sentenza senza rinvio perché il fatto non sussiste.

Fonte: D&G

Agosto 2019

Avv. E. Oropallo

 

Rito sommario speciale per le controversie sul compenso dell’avvocato

La Cassazione ribadisce che le controversie per la liquidazione del compenso dell’avvocato nei confronti del cliente, previste dall’art. 28 l. n. 794/1942, come modificata dall’art. 34 d.lgs. n. 150/2011, devono essere trattate con la procedura di cui all’art. 14 del d.lgs. n. 150/2011, anche nel caso in cui la domanda abbia ad oggetto l’an della pretesa.  

Le Sezioni Unite, con la sentenza n. 4485/18, hanno infine fatto luce sul tema: dopo l’entrata in vigore dell’art. 14 d.lgs. n. 150/2011, le controversie relative al compenso dell’avvocato possono essere introdotte con ricorso ai sensi dell’art. 702-bis c.p.c. con procedimento sommario speciale (disciplinato dagli artt. 3, 4 e 14 del d.lgs.) oppure ai sensi degli artt. 633 ss. c.p.c. e l’eventuale successiva opposizione deve essere proposta ex art. 702-bis c.p.c., integrato con la disciplina speciale degli artt. 648, 649, 653 e 654 c.p.c..

Fonte: D&G

Agosto 2019

Avv. E. Oropallo

La liquidazione delle spese deve sempre essere motivata

A ribadirlo è la Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, con la sentenza n. 27234/18; depositata il 26 ottobre.

I criteri di determinazione delle spese devono essere fondati solo su fatti oggetto di giudizio.

La quantificazione delle spese deve avvenire sulla base delle tariffe in vigore al momento della liquidazione.

Sotto il profilo della quantificazione delle spese inoltre, ribadendo i principi affermati da Cass. SS.UU. n. 17405/2012 e ribaditi da ultimo da Cass. n. 30529/2017, ritiene la Corte che “si applicano i nuovi parametri …. ogni qual volta la liquidazione giudiziale intervenga in un momento successivo alla data di entrata in vigore del decreto”.

 Il Giudice del rinvio deve liquidare il compenso per tutti i gradi di giudizio, sulla base di una valutazione unitaria.

Fonte: D&G

Agosto 2019

Avv. E. Oropallo

Espulsione dello straniero: sospesa se il permesso di soggiorno è in attesa di rinnovo

Così il Supremo Collegio con l’ordinanza n. 5352/19, depositata il 22 febbraio.

In primo luogo la S.C. ricorda che in base all’art. 13, comma 2, lett. b), d.lgs. n. 286/1998 l’espulsione dello straniero «è consentita» allorquando il permesso di soggiorno sia scaduto da più di 60 giorni «senza che sia intervenuta richiesta di rinnovo». Ribadisce, in secondo luogo la Corte, che l’efficacia esecutiva del provvedimento di diniego della protezione internazionale è sospesa allorquando il richiedente asilo propone ricorso avverso suddetto provvedimento. In caso di ricorso, dunque, il richiedente gode di una «situazione di non espellibilità fino all’esito della decisione sul ricorso».

In tal senso, rappresenta un ostacolo all’espulsione «la mera pendenza della domanda di rinnovo del permesso di soggiorno in accoglimento del ricorso».

Per tali ragioni il Collegio accoglie il ricorso con rinvio affinché il GdP, prima di decidere sull’espulsione dello straniero, accerti «la pendenza del giudizio di impugnazione del diniego di rinnovo del permesso di soggiorno».

Fonte: D&G

Agosto 2019

Avv. E. Oropallo

Ebbrezza e avviso sulla possibilità di farsi assistere dal difensore

In questa interessantissima sentenza appena depositata dalla Quarta Sezione Penale della Cassazione (25.07.2019) vengono affrontate e rivisitate alcune questioni di fondamentale importanza nell’ottica della difesa.

La vicenda era stata giudicata dal Tribunale di Forlì e confermata dalla Corte di Appello di Bologna sul presupposto che in questa materia se vi è stato decreto penale di condanna, l’eccezione di nullità per mancato avviso della possibilità di essere assistito dal difensore deve essere eccepita nell’atto di opposizione.

Quindi l’eccezione era stata sempre rigettata e l’imputato condannato mentre la Cassazione ha annullato entrambe le sentenze assolvendo l’imputato per insussistenza del fatto previa dichiarazione della nullità degli accertamenti alcolemici.

In buona sostanza la Suprema Corte ha “rivisitato” la pronuncia a Sezioni Unite che si era occupato del tema e che era stata chiarissima nell’affermare che tale eccezione poteva essere sollevata fino alla pronuncia di primo grado (nel caso che occupa era stata sollevata nella trattazione delle questioni preliminari e ribadita in discussione).

In quella sentenza vi era in effetti un passaggio successivo per cui si affermava che in caso di decreto penale l’eccezione doveva essere proposta nell’opposizione, tuttavia nella sentenza in commento quel passaggio è stato fortemente criticato, non condiviso anche perché considerato un mero obiter dictum, in cui superficialmente, tra l’altro, si equiparava il decreto penale alla sentenza di primo grado.

Nel caso in questione poi non si trattava di accertamento mediante etilometro, ma di analisi sui liquidi biologici dell’imputato ricoverato in Ospedale dopo un sinistro stradale, richiesti dalla Polizia Giudiziaria per finalità medico legali: la pronuncia che qui si annota e condivide pienamente non solo ribadisce che gli inquirenti dovevano dare formale avviso all’indagato ai sensi dell’art. 114. disp. att. c.p.p. ma rileva come giurisprudenza pacifica che tale avviso vada dato anche per eseguire esami su campioni di liquidi biologici già prelevati dai sanitari per finalità di diagnosi e cura.

Un ottimo risultato davvero per il Collega Avv. Gian Luca Betti difensore dell’imputato che ha coltivato l’eccezione fino alla Suprema Corte di Cassazione.

Buone vacanze a Tutti.

Filippo Poggi

La domanda di addebito della separazione può essere introdotta con memoria integrativa

Lo ha affermato la Corte di Cassazione con la sentenza n. 17590/19, depositata il 28 giugno.

Il caso. La Corte d’Appello di Roma rigettava l’impugnazione avverso la sentenza del Tribunale nella parte in cui aveva addebitato al ricorrente la separazione personale dalla coniuge ritenendo tempestiva la domanda avanzata in primo grado da quest’ultima nella memoria integrativa di cui all’art. 709, comma 3, c.p.c..

L’ex marito ha impugnato tale decisione dinanzi alla Suprema Corte dolendosi per aver la Corte territoriale ritenuto tempestiva la domanda di addebito avanzata dalla donna per la prima volta in primo grado con memoria integrativa ex art- 709, comma 3, c.p.c. anziché nel ricorso introduttivo ex art. 706 c.p.c..

La Corte di legittimità ha già avuto modo di esprimersi sull’ammissibilità della domanda di addebito nel giudizio di separazione personale tra coniugi, affermando che «nella formulazione dell’art. 706 c.p.c. antecedente alle modifiche apportate dal d.l.,….non era necessario, ai fini della sua ammissibilità, che la domanda di addebito,….venisse ripetuta nella parte del ricorso introduttivo relativa alle conclusioni, restando sufficiente che la volontà di un coniuge di addebitare la separazione all’altro fosse riconducibile ad una lettura complessiva dell’atto» (Cass. Civ. n. 1278/14).

In conclusione, la sentenza in commento dichiara improcedibile il ricorso e cristallizza il principio secondo cui “in materia di separazione personale tra coniugi, la domanda di addebito della separazione può essere introdotta per la prima volta con la memoria integrativa di cui all’art. 709, comma 3, c.p.c. in ragione della natura bifasica del giudizio in cui alla finalità conciliativa propria del momento”.

Fonte: D&G

Luglio 2019

Nota a cura avv. E. Oropallo

Separazione e divorzio: la modifica delle statuizioni ammessa solo in caso di revisione

I provvedimenti presi dal Tribunale dei minori, avendo ad oggetto questioni e circostanze diverse, non intervengono sull’esecutività delle statuizioni, sulle questioni economiche, prese nell’ambito di procedimenti di separazione o di scioglimento del matrimonio.

Questo è il principio ribadito dalla Terza Sezione della Suprema Corte, con la sentenza n. 17689/2019, emessa nella Camera di Consiglio del 30 aprile 2019 e depositata il successivo 2 luglio

Il caso. La sentenza del Tribunale di Treviso aveva dichiarato cessati gli effetti civili del matrimonio del 13 gennaio 2010, ponendo a carico del padre un assegno o contributo per il mantenimento del figlio, contestualmente collocato presso la madre. A questa sentenza, era seguito un primo decreto del Tribunale per i Minorenni di Venezia, volto alla verifica della capacità genitoriale di entrambi i coniugi, che aveva affidato il figlio al Comune, collocandolo presso il padre. Nel frattempo, il Tribunale di Treviso aveva respinto l’opposizione a precetto promossa dal padre, motivandola con la considerazione che la collocazione del minore presso il padre non aveva privato il titolo esecutivo di efficacia e validità, poiché il debitore non aveva attivato il procedimento di cui all’art. 9 della legge n. 898/70, cioè quello relativo alla modifica delle condizioni di separazione o divorzio.

L’appello presentato dal padre fu rigettato dalla Corte di Appello di Venezia, stabilendo che le statuizioni patrimoniali conseguenti alla sentenza di cessazione degli effetti civili potessero essere inficiate dalle decisioni sulla potestà genitoriale, potendo invece essere modificate solo dal Tribunale competente ai sensi dell’art. 9, legge n. 898/70, con apposito ricorso da parte dell’interessato, come prospettato anche (fin dall’inizio) dalla tesi difensiva dell’opposta.

Contro la decisione della Corte di appello, presentava ricorso il padre: la Cassazione ha respinto il ricorso, confermando che, in caso di provvedimenti in tema di affidamento o collocazione della prole, nell’ambito di procedimenti di separazione personale o divorzio, la modifica da parte del Tribunale per i Minori del solo regime di collocazione del figlio non ha effetto automatico sulla precedente statuizione di un contributo economico per il suo mantenimento, adottata dal competente Tribunale.

Fonte: D&G

Luglio 2019

Nota a cura avv. E. Oropallo

Sono da equipararsi l’apolide “di fatto” a quello “di diritto”

Nel 2016 veniva emesso nei confronti di un soggetto, già cittadino jugoslavo, decreto prefettizio di espulsione in virtù della mancata regolarizzazione della presenza dello stesso sul territorio nazionale. In particolare, in detto decreto si giustificava l’ordine di espulsione evidenziando l’insussistenza delle condizioni per il rilascio di un permesso di soggiorno per motivi umanitari o ad altro titolo, nonché la ricorrenza dei presupposti per considerare l’uomo come persona a rischio di fuga. L’interessato, ovviamente, proponeva opposizione affermando di essere entrato in Italia nel 1986, quando era ancora cittadino jugoslavo, e di non essere mai ritornato nel corso di questo periodo né in Jugoslavia né in Bosnia, suo luogo di nascita. In questo modo, egli assumeva di aver acquisito i presupposti per la dichiarazione di apolidia tanto che -a riprova della genuinità delle sue argomentazioni- tale situazione aveva impedito l’esecuzione di tre precedenti decreti di espulsione, l’ultimo dei quali era stato oggetto di opposizione che era

stata accolta dal giudice di pace competente il quale aveva riconosciuto la sua inespellibilità.

Ma l’ufficio del Giudice di Pace interessato dell’impugnazione del 2016 respingeva le difese dell’uomo rilevando che l’opponente, pur essendo in possesso dei requisiti per la dichiarazione di apolidia, non aveva mai fatto richiesta in tal senso nonostante il proprio ingresso in Italia risalisse al 1986. Non rimaneva, pertanto, che il ricorso in Cassazione il quale, puntualmente, veniva depositato dall’interessato al fine di ottenere giustizia.

Il concetto di apolidia. Gli Ermellini, innanzitutto, ricordano come per le Sezioni Unite della Suprema Corte, sin dal 2008, la nozione di apolide è quella di colui che si trovi in un Paese di cui non è cittadino, provenendo da un altro paese del quale ha perso formalmente e sostanzialmente la cittadinanza. Pertanto, ricordano gli Ermellini, ogni individuo che soddisfa questi requisiti, è da considerarsi apolide come nel caso di specie. Ma la Suprema Corte va oltre rammentando come, a tal fine, il riconoscimento giudiziale dello status di apolide abbia natura dichiarativa e non costitutiva: in questa prospettiva, dunque, anche quando lo status di apolide non sia stato ancora oggetto di accertamento giudiziale ma i suoi presupposti sono inequivocabilmente emersi dalle verifiche amministrative e/o documentali svolte dalle autorità competenti, non può non riconoscersi rilievo alla condizione di un soggetto «che si trova in un Paese di cui non è cittadino proveniente da altro Paese del quale ha perso la cittadinanza». Peraltro, nel caso in esame, è emerso dagli accertamenti svolti alle autorità pubbliche competenti, sia nello Stato italiano che nello Stato di origine, una condizione di ‘apolidia di fatto’, rilevata ed accertata incidentalmente anche dal giudice di pace competente in un provvedimento precedente che, pertanto, non può rimanere privo di effetti giuridici.

A questo punto, la Suprema Corte verifica la percorribilità nei suoi confronti di un provvedimento di espulsione ex art. 13 e ss. del d.lgs. n. 286/1998. A tal proposito, gli Ermellini ricordano che l’art. 31 della Convenzione di New York del 1954 prevede un generale divieto di espulsione dell’apolide, facendo salva l’ipotesi in cui la decisione sia giustificata da motivi di sicurezza e di ordine pubblico.                   Si tratta -precisa la Suprema Corte- di una disposizione che rivela una precisa intenzione degli Stati contraenti di limitare il potere loro riservato dal diritto internazionale di espellere in qualsiasi momento, sulla base della normativa interna, uno straniero precedentemente ammesso sul territorio nazionale.

La norma di garanzia sancita dall’art. 31 della Convenzione deve applicarsi in via analogica anche a coloro i quali si trovano in una condizione di “apolidia di fatto”.

In entrambi i casi deve operare la medesima ratio che sottostà al riconoscimento dello status di apolide nel diritto internazionale, così come recepito dal legislatore italiano.
Tale equiparazione della condizione di diritto a quella di fatto, ai fini della limitazione del potere di espulsione dell’apolide, trova un solido fondamento nel rilievo costituzionale attribuito alla tutela universalistica della persona umana. Inoltre, la Suprema Corte rileva che nel caso in esame entrambi i provvedimenti espulsivi non sono stati ammessi sulla base del riscontro, da parte dell’autorità prefettizia, della pericolosità sociale dell’uomo ma sul presupposto della irregolarità della sua presenza e della permanenza nel territorio nazionale. Per tutti questi motivi, la Cassazione, accogliendo la richiesta del Procuratore Generale, afferma il seguente principio di diritto, secondo cui l’art. 31 della Convenzione di New York, che prevede la non espellibilità di un apolide se non nei casi di documentata sussistenza dei motivi di sicurezza nazionale o di ordine pubblico, si estende in via analogica anche alle situazioni di apolidia di fatto.

Una sentenza garantista della Suprema Corte che ancora una volta serve a fermare i tentativi dell’autorità amministrativa di forzare la norma di diritto. Una sentenza che è un segnale che non si possono stracciare i trattati internazionali che prevedono un preciso diritto al soggetto apolide di restare nel territorio in cui egli svolge la sua attività, ha una vita familiare, integrato nel tessuto sociale del paese di accoglienza.

Fonte: D&G

Giugno 2019

Nota a cura

(avv. E. Oropallo)

 

Minori stranieri: no all’automatico divieto di ingresso del genitore condannato

La pronuncia di condanna inflitta al familiare di un minore straniero presente sul territorio italiano non può bloccare in modo automatico l’ingresso e il soggiorno dello straniero. 

E’ quanto ha stabilito la Corte di Cassazione, sezioni unite civili, con la sentenza n. 15750 del 12 giugno 2019. La vicenda aveva preso il via dal ricorso di due coniugi di nazionalità albanese che avevano chiesto di essere autorizzati a rimanere in Italia per occuparsi dei figli minori. Il Tribunale per i minorenni dell’Abruzzo aveva respinto il ricorso, così come la Corte di appello di L’Aquila. Per la Cassazione, l’articolo 31, comma 3 del testo unico sull’immigrazione (Dlgs n. 286/98) è una norma di chiusura del sistema di tutela dei minori stranieri, che deroga alla disciplina sull’ingresso e sul soggiorno dello straniero.

La norma – osserva la Cassazione – è una misura incisiva a tutela e a protezione del diritto fondamentale del minore a vivere con i genitori e permette l’attuazione effettiva della Convenzione Onu sui diritti del fanciullo che impone alle  autorità  nazionali  di  considerare  detto  interesse  in ogni decisione sul minore e di vigilare affinché il minore non sia separato dai suoi genitori.

Così, la Cassazione ha affermato il principio di diritto che vieta l’automaticità del diniego all’ingresso o alla permanenza in Italia del familiare di un minore straniero che si trova sul territorio italiano, permettendo, però una valutazione della condanna se costituisce una minaccia concreta e attuale per l’ordine pubblico e la sicurezza nazionale, escludendo la quale, non può che ritenersi prevalente il diritto del minore rispetto alla norma generale.

Fonte: www.marinacastellaneta.it

Giugno 2019

Nota a cura avv. E. Oropallo

Il termine per la presentazione dell’istanza di mediazione è perentorio?

Nella mediazione demandata, il termine di 15 giorni per la presentazione dell’istanza di mediazione è da considerarsi perentorio, e quindi se viene presentata in ritardo, determina l’improcedibilità della domanda. (Tribunale di Lecce, sentenza 3 marzo 2017)

Sentenza del Tribunale di Lecce riguardo alla questione, assai dibattuta, relativa alla perentorietà o meno del termine di 15 giorni, previsto dall’art. 5, comma 2, d.lgs. n. 28/10 e successive modifiche.

La questione è stata sino ad oggi piuttosto dibattuta. In realtà, le prime sentenze hanno negato che il termine fosse perentorio: si vedano ad esempio, Tribunale di Firenze, sez. III Civile, sentenza 4 giugno 2015, oppure Tribunale di Roma, sez. XIII.

Ha cominciato poi a farsi strada un’opinione diversa, a partire sempre dal Tribunale di Firenze (9 giugno 2015) a cui hanno fatto seguito altre pronunce, come quella del Tribunale di Cagliari dell’8 febbraio 2017, estensore Tamponi, secondo il quale «Il termine di quindi giorni per la presentazione dell’istanza di mediazione ha – in ragione della sua funzione e delle conseguenze decadenziali – natura perentoria, così che dal suo mancato rispetto consegue la necessità per il giudice di emettere una pronunzia di rito contenente la declaratoria di improcedibilità del processo».

L’implicita natura perentoria del termine si evince infatti dalla stessa gravità della sanzione prevista, che è l’improcedibilità della domanda giudiziale. 

Il Tribunale ha concluso nel senso che la mediazione tardivamente attivata rende improduttivo di qualsiasi effetto il relativo incombente, provocando gli stessi effetti del suo mancato esperimento e l’applicazione della sanzione della improcedibilità della domanda giudiziale.

La sentenza sopra richiamata non è l’unica in quanto altre ne sono seguite che hanno messo in discussione la perentorietà del termine.

La Corte di appello di Milano, con la sentenza del 7 giugno 2017, ha avuto modo di pronunciarsi sulle conseguenze del deposito “tardivo” (dopo i 15 giorni) della domanda di mediazione a seguito dell’invito contenuto nell’apposita ordinanza del giudice, sia quando rileva che la mediazione è obbligatoria e non è stata ancora avviata oppure quando rimette le parti in mediazione c.d. delegata (Corte di appello di Milano, sez. I Civile, sentenza n. 2515/17; depositata il 7 giugno).

La Corte di appello di Milano ha affrontato proprio la questione volta a sapere «se il mancato rispetto del termine di 15 giorni assegnato dal giudice per avviare il tentativo di mediazione, alla stregua della legge sulla mediazione processuale, possa ritenersi equivalente al mancato tentativo di mediazione nei casi in cui esso sia previsto come obbligatorio, situazione- quest’ultima- che certamente determina l’improcedibilità del giudizio ordinario».
La Corte di appello «considerando che il tentativo di mediazione è stato comunque esperito (con esito negativo), il giudice avrebbe dovuto rilevare che la condizione di procedibilità dell’azione giudiziale si era in ogni caso avverata, sebbene con ritardo rispetto al termine (ordinatorio) inizialmente assegnato. Ed infatti, il termine di quindici giorni non appare corrispondere a un termine processuale cui applicare il disposto di cui all’art. 154 c.p.c.».
Del resto, «lo stesso principio di effettività dei diritti, immanente al diritto di accesso alla giustizia cui si conforma la legge sulla mediazione, imporrebbe di non considerare come penalizzanti termini che la legge non definisce come perentori, e che chiaramente si devono definire come regolatori degli interessi in gioco».

Solo così si rispettano i principi del giusto processo. E ciò anche perché secondo la Corte di appello «un’interpretazione di diverso senso … aprirebbe  un  vulnus  nella  stessa  legge  di  mediazione  di  derivazione comunitaria che, se nella versione nazionale scelta dal legislatore interno ha previsto come obbligatorio il tentativo di mediazione nella fase preliminare di alcuni contenziosi civili, come imprescindibile condizione di procedibilità, rimane pur sempre una disciplina orientata a incentivare soluzioni delle controversie pacifiche e alternative alla giurisdizione, senza eccessiva compromissione del diritto di agire, il quale non potrebbe essere impedito frapponendo ulteriori ostacoli temporali o decadenze processuali incompatibili con il principio del giusto processo e con il diritto di libero accesso alla giustizia, di matrice costituzionale e convenzionale (v. art. 24 Cost e art. 6 Convenzione del diritti dell’Uomo )».

Per il momento, sembra che non vi sia stata ancora una pronuncia delle SS.UU. della Cassazione che abbia sciolto il nodo anche se la giurisprudenza di merito si è adeguata alla sentenza della Corte di Appello di Milano – sopra richiamata – che sembra aver meglio motivato la scelta del termine dilatorio.

Ultimamente anche il Tribunale di Trapani, con ordinanza del 06.02.2018, ha ribadito la non perentorietà del termine di 15 gg. per la promozione del procedimento di mediazione.

Fonte D & G

Nota a cura

avv. E. Oropallo

Giugno 2019

Terrorismo internazionale: la Cassazione si pronuncia sul reato di arruolamento

L’arruolamento in un’organizzazione terroristica internazionale si realizza anche senza la prova dell’esistenza di un “serio accordo” tra l’arruolato e il gruppo arruolante perché ciò che conta, per configurare il reato previsto dall’articolo 270-quarter del codice penale, è che vi sia una disponibilità concreta del terrorista a “compiere atti eversivi, anche a progettazione individuale”, pur in mancanza di una prova del patto. Lo ha chiarito la Corte di Cassazione, seconda sezione penale, con la sentenza n. 23168/19 depositata il 27 maggio.

Per la Suprema Corte, è necessario dare attuazione nell’ordinamento italiano alla risoluzione n. 2178 del 2014 che obbliga “a reprimere una serie di condotte volte ad agevolare, attraverso un coinvolgimento diretto, il compimento di atti terroristici, anche in territorio estero ….”   

Tra i comportamenti puniti il reclutamento di soggetti destinati a trasferirsi in altri Paesi per commettere atti di terrorismo. L’ordinamento italiano ha due fattispecie di reato: una, prevista nell’articolo 270-bis, in cui si punisce colui che ha un preciso ruolo nell’organigramma dell’associazione e l’altra, nell’articolo 270-quarter,in cui vi è l’adesione al programma con svolgimento di attività terroristica, anche a progettazione individuale. Così, non è necessario, in quest’ultima ipotesi, un serio accordo. 

Nel caso in esame, il ricorrente aveva seguito un percorso di progressiva radicalizzazione ideologica, si era messo a disposizione dell’organizzazione compiendo un viaggio in Siria e aveva materiale telematico riconducibile alla propaganda jihadista. Con un’evidente prova del suo arruolamento che ha condotto alla conferma della condanna.

Giugno 2019

Fonte: www.marinacastellaneta.it

Nota a cura

Avv. E. Oropallo

Per l’Avvocato Generale occorrono regole più restrittive per l’acquisizione e la detenzione di armi da fuoco

Lo afferma l’Avvocato Generale presso la Corte di Giustizia dell’UE nelle conclusioni relative alla causa C-482/18 dell’11 aprile 2019 (ECLI:EU:C:2019:321).

Le conclusioni dell’Avvocato Generale riguardano il ricorso promosso dalla Repubblica Ceca con cui è stato chiesto l’annullamento della direttiva UE 2017/853 del 17 maggio 2017 di modifica alla direttiva 91/477 relativa al controllo dell’acquisizione e della detenzione di armi. Dopo i tragici eventi terroristici di Parigi e Copenaghen, è sorta l’esigenza di modificare tale disciplina in modo da implementare la tracciabilità di tutte le armi da fuoco.

La direttiva 2017/853: sistema di monitoraggio sull’adeguata sorveglianza delle armi. L’art. 5 della direttiva 2017/853 obbliga gli Stati membri a realizzare un sistema di monitoraggio funzionale a garantire il rispetto delle condizioni di autorizzazione stabilite dal diritto nazionale per tutta la durata dell’autorizzazione nonché la valutazione delle informazioni mediche e psicologiche pertinenti, prevedendo, inoltre, norme in materia di adeguata sorveglianza delle armi da fuoco e delle munizioni e norme in materia di custodia in sicurezza. 

L’Avvocato Generale, sostiene che la direttiva 2017/853 realizza un equo contemperamento tra il principio di libera circolazione delle merci e la giusta tutela della sicurezza pubblica là dove non sequestra tutte le armi da fuoco civili legalmente detenute, limitandosi ad aumentare i controlli su di esse.

Peraltro, sottolinea l’Avvocato Generale, nel diritto comunitario non esiste un diritto fondamentale a possedere armi da fuoco, né tale diritto fa parte delle «tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri». Di conseguenza, l’applicazione della direttiva di modifica nella parte in cui prevede che, in presenza di determinate circostanze, sia possibile confiscare alcune armi da fuoco detenute da individui non si pone in contrasto con il diritto di proprietà atteso che quest’ultimo diritto può essere limitato nell’interesse pubblico e alle condizioni previste dalla legge.

 

 

 

 Il divieto per l’uso civile delle armi semiautomatiche. 

La direttiva, inoltre, vieta l’uso di armi semiautomatiche per uso civile in quanto alcune di tali armi possono essere facilmente convertite in armi da fuoco automatiche, creando così una minaccia per la sicurezza e comunque, anche senza tale conversione, potrebbero essere molto pericolose data la loro capacità relativa al numero di colpi elevata.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it

Giugno 2019

(Avv. E. Oropallo)

La CEDU deposita il primo parere in attuazione del Protocollo n. 16

La madre non biologica che ha fatto ricorso alla maternità surrogata all’estero ha diritto a riconoscere il figlio se ha ottenuto un certificato legale che la indica come madre nel Paese in cui la gestazione “in affitto” ha avuto luogo. Questo perché l’interesse superiore del minore e il suo diritto ad avere entrambi i genitori prevalgono sui divieti nazionali che proibiscono sul territorio dello Stato la maternità surrogata. E’ la Corte Europea dei diritti dell’uomo a stabilirlo nel parere reso dalla Grande Camera.               Si tratta del primo provvedimento adottato in base al Protocollo n. 16 in vigore dal 1° agosto 2018 per 10 Stati membri (l’Italia manca ancora all’appello), che permette alle più alte giurisdizioni nazionali di rivolgersi alla Grande Camera della Corte Europea per un parere su questioni di principio relative all’interpretazione o all’applicazione della Convenzione e dei suoi protocolli. Un meccanismo che si avvicina, pur con alcune differenze, al sistema di rinvio pregiudiziale previsto nel Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, anche se il parere fornito dalla Grande Camera non è vincolante a differenza della sentenza della Corte UE. A chiedere l’intervento di Strasburgo è stata la Corte di Cassazione francese, nella sua composizione plenaria   (Arrêt n° 638 du 5 octobre 2018).

Per la Grande Camera, gli Stati sono tenuti a garantire il riconoscimento legale del rapporto tra madre legale e figlio nato da maternità surrogata all’estero nei casi in cui questo legame sia stato riconosciuto nel Paese di gestazione. Il no assoluto al riconoscimento è così incompatibile con l’interesse superiore del minore per accertare il quale è necessario procedere a una valutazione sul diritto a crescere in un ambiente stabile, ad ottenere l’individuazione dei soggetti responsabili della crescita, nonché le esigenze del minore. Detto questo, però, la Corte osserva che gli Stati possono prevedere altri meccanismi come il ricorso all’adozione a patto che, in conformità con il principio dell’interesse superiore del minore, l’adozione avvenga rapidamente. Così scrive la prof. Castellaneta nel suo blog: www.marinacastellaneta.it.

L’Italia, ricorda la giurista, non ha sottoscritto ancora il protocollo n. 16 in vigore dal 1° Agosto 2018, per cui il giudice italiano potrebbe anche essere di diverso avviso e rigettare la richiesta di trascrizione nei registri di stato civile.

Anche se la stessa Corte ha ricordato che, in alternativa, lo Stato membro può anche prevedere il sistema dell’adozione del minore a patto che essa avvenga in tempi rapidi.

Fonte: www.marinacastellaneta.it

Giugno 2019

Nota a cura avv. E. Oropallo

 

La Cassazione sulla nozione di minore straniero non accompagnato

Con ordinanza n. 9199/19, depositata il 3 aprile dalla sesta sezione civile, la Suprema Corte, nello stabilire la competenza del Tribunale per i Minorenni, ha  colto l’occasione per precisare i requisiti necessari per la qualifica di “minore straniero non accompagnato”.

La Corte ritiene che, per applicare gli strumenti di tutela previsti dall’ordinamento italiano e per la presentazione della domanda di protezione internazionale, il minore debba essere privo di assistenza e di rappresentanza legale sul territorio nazionale.

A sollevare il conflitto di competenza è stato il Tribunale di Torino chiamato ad occuparsi dell’istanza di un cittadino albanese che chiedeva la tutela del fratello minorenne il quale si era allontanato dal proprio paese di origine, con il consenso dei genitori, per andare a vivere con il fratello in Italia. Il Giudice Tutelare del Tribunale di Novara aveva trasmesso gli atti al Tribunale per i Minorenni di Torino per il quale, la qualificazione come minore straniero non accompagnato, in questa vicenda, non era stata corretta perché, ad avviso del Tribunale, il minore non era privo di assistenza e, così, ha sollevato il regolamento di competenza. La Cassazione ha chiarito che, in base all’articolo 2 della legge n. 47/2017 il minore straniero non accompagnato deve ritenersi privo di assistenza e di rappresentanza da parte dei genitori e di altri adulti legalmente responsabili in base alle leggi dell’ordinamento italiano. 

Di conseguenza, considerando che la rappresentanza legale è quella prevista secondo l’ordinamento italiano ed è attribuita ai soli genitori che non possono delegarla “in forma privatistica ad altri soggetti”, non è possibile negare la qualifica di minore straniero non accompagnato a colui che è assistito da un fratello con dimora in Italia. Pertanto, la Cassazione conferma la competenza del Tribunale per i Minorenni.

Giugno 2019

Fonte: www.marinacestellaneta.it

Nota a cura

Avv. E. Oropallo

Quali fattori possono compensare lo spazio nella cella inferiore al minimo vitale?

 Il caso.

Il Tribunale di Sorveglianza, respingendo il reclamo introdotto da un detenuto che chiedeva l’indennizzo per detenzione inumana e degradante, rilevava che solo in una delle tre strutture carcerarie era stata messa a disposizione del recluso una cella avente spazio vitale individuale inferiore a 3 metri quadrati (nello specifico erano 2,91). Tale circostanza, sosteneva il Tribunale, era stata riequilibrata dalle otto ore al giorno di permanenza esterna assicurate al detenuto. Quest’ultimo, avverso tale decisone, propone ricorso in Cassazione deducendo che il Tribunale non abbia tenuto conto delle particolari sue condizioni fisiche. Infatti, il ricorrente, affetto da numerose patologie e non in grado di deambulare in autonomia, avrebbe avuto bisogno di particolari forme di assistenza.

La Suprema Corte rileva, limitatamente al periodo di detenzione della cella inferiore a tre metri quadrati, una violazione della disciplina regolatrice. I Giudici ricordano che la Grande Camera Corte Edu, nella decisione del 20 ottobre 2016, ha affermato che quando lo spazio vitale del singolo in cella è inferiore ai 3 metri quadrati, scatta una forte presunzione di trattamento inumano o degradante. Inoltre, i possibili fattori di compensazione devono sussistere cumulativamente e possono riguardare, tra le altre cose, la minore rilevanza della riduzione dello spazio minimo richiesto, la sufficiente libertà di movimento e lo svolgimento di adeguate attività fuori dalla cella.

La valutazione di questo minimo è relativa per definizione; la stessa dipende dall’insieme dei dati relativi al caso, e in particolare dalla durata del trattamento, dai suoi effetti fisici e mentali nonché, talvolta, dal sesso, dall’età e dallo stato di salute».

Posto che, nel caso di specie, il riequilibrio della detenzione sofferta dal ricorrente risulta solo apparentemente motivato, senza concrete valutazioni, la Cassazione annulla l’ordinanza impugnata, limitatamente al periodo trascorso nella cella senza spazio minimo vitale, e rinvia al Tribunale di Riesame.

Così si è pronunciata la Cassazione con la sentenza n. 23496/19, depositata il 28 maggio.

Ancora una volta la Cassazione ritorna ad occuparsi dello spazio minimo vitale necessario per il detenuto, come può essere quello di cui egli gode all’interno della cella, “che può essere compensato con adeguata attività fuori dalla cella”. A nostro avviso si tratta di un criterio del tutto incompatibile con i diritti del recluso che non può vedere ristretto lo spazio di cui dispone all’interno della cella anche quando venga ad usufruire di un altro spazio all’esterno della cella.

Fonte su D&G

Giugno 2019

Nota a cura avv. E. Oropallo

La commercializzazione della cannabis light è reato

Lo hanno stabilito le Sezioni Unite Penali della Suprema Corte che hanno affermato che «la commercializzazione di cannabis sativa L, e in particolare, di foglie, inflorescenze, olio, resina, ottenuti dalla coltivazione della predetta varietà di canapa, non rientra nell’ambito di applicazione della l. n. 242/2016, che qualifica come lecita unicamente l’attività di coltivazione di canapa delle varianti iscritte nel Catalogo comune della specie di piante agricole; pertanto, integrano il reato di cui all’art. 73, commi 1 e 4, d.P.R. n. 309/1990, le condotte di cessione, di vendita e, in genere, la commercializzazione al pubblico, a qualsiasi titolo, dei prodotti derivati dalla coltivazione della cannabis sativa L., salvo che tali prodotti siano in concreto privi di efficacia drogante».

La sentenza era attesa perché doveva mettere un punto fermo dopo che le singole Sezioni della Suprema Corte si erano espresse in modo diverso anche se la decisione delle SS.UU. non sembra aver sciolto ogni dubbio per cui bisognerà leggere la motivazione completa della sentenza.

Comunque, a leggere l’informazione provvisoria, ci par di capire che la Corte ha fatto riferimento alla legge del 2016 che “elenca – scrive la Cassazione – tassativamente i derivati della predetta coltivazione che possono essere commercializzati”.

Richiama ancora la Corte la legge 309/1998 che punisce la produzione, il traffico e la detenzione di sostanze stupefacenti, “salvo che tali prodotti siano in concreto privi di efficacia drogante”.

Poiché fino ad oggi si vendeva la cannabis light che conteneva una quantità di principio attivo più bassa di quello previsto dalle tabelle degli stupefacenti, bisognerà capire se la Cassazione abbia stabilito una nuova soglia o lasciato in vigore la norma precedente che già individuava il limite che doveva essere inferiore allo 0,5%.

Fonte

D&G

Giugno 2019

Nota a cura avv. E. Oropallo