DDL efficienza processo penale e celere definizione procedimenti in appello

In allegato alla presente vi invio il testo del DDL licenziato da CDM lo scorso 14.02.2020 sul quale dovremo come penalisti molto confrontarci nelle prossime settimane.

Sarei molto lieto se mi voleste  fare partecipe delle vostre perplessità o condivisioni sulle previsioni di questo testo sia per quello che contiene che per quello che non contiene.

Ogni considerazione potrà essere inviata anche alla Camera Penale e all’Ordine Forense di appartenenza che certamente faranno sentire la loro autorevole voce in questo delicato frangente.

Grazie mille.

Filippo Poggi

Parere sul d.l. 161/2019 in materia di intercettazioni

Parere sul Disegno di Legge n. 1659 AS di conversione del Decreto Legge n. 161/2019 recante modifiche urgenti alla disciplina delle intercettazioni di conversazioni o comunicazioni (GU Serie generale n. 305 del 31.12.2019).

Il parere del 13 febbraio 2020 analizza i punti salienti del testo normativo, che modifica il d.lgs. 216/17. Esso:

  • amplia i delitti in relazione ai quali è possibile disporre intercettazioni tra presenti, anche a mezzo captatore, includendo i delitti commessi da incaricati di pubblico servizio
  • amplia i delitti rispetto ai quali il pm può disporre in caso di urgenza le intercettazioni con captatore
  • amplia i casi in cui nel decreto autorizzativo non è necessario indicare tempi e luoghi in cui è consentita l’attivazione del microfono del captatore
  • amplia il regime di utilizzabilità per delitti diversi.
  • disciplina le modalità per garantire la tutela della reputazione e della privacy delle persone
  • modifica le modalità di trasmissione dei verbali e delle registrazioni dalla pg al pm
  • le procedure per acquisire le intercettazioni rilevanti ed effettuare la perizia trascrittiva
  • il diritto di accesso e copia delle parti
  • modifica il regime transitorio, ora ancorato alla data di iscrizione dei procedimenti penali. In argomento, il parere si esprime positivamente, perché lo spostamento dal criterio legato al decreto di autorizzazione alla data di iscrizione consente di evitare la coesistenza di due diversi regimi nell’ambito dello stesso procedimento. Quanto ai possibili profili problematici derivanti dai casi di riunione o stralcio, si rileva che dovrà in tal caso intervenire l’elaborazione giurisprudenziale.

Quanto al regime di utilizzabilità per delitti diversi, il parere analizza le diverse problematiche che pone la dicitura normativa e vaglia le alternative e i nodi applicativi derivanti dall’interpretazione della norma come riferita a procedimenti diversi o a reati diversi nel medesimo procedimento

Con riferimento alle modalità esecutive delle intercettazioni, il parere saluta con favore la modifica introdotta dal decreto legge, ritenendo che la stessa sia utile a superare le criticità della precedente formulazione. Si rilevano altresì però i possibili rischi derivanti dall’ampiezza dell’obbligo di vigilanza che grava in capo al p.m., specie in procedimenti con elevato numero di captazioni; inoltre, viene posta in risalto l’eccessiva elasticità della locuzione “espressioni lesive della reputazione”, che può determinare una discrezionalità applicativa foriera di disomogeneità fra diversi uffici giudiziari.

Quanto all’archivio per la conservazione delle intercettazioni, il parere rileva come ancorare la distruzione alla nozione di “non necessarietà per il procedimento” sia foriera di possibili rischi ove si consideri che le necessità probatorie possono mutare nel corso del procedimento; inoltre le intercettazioni potrebbero legittimamente essere utilizzate in altri procedimenti. Pertanto, sarebbe stato preferibile il richiamo al concetto di “manifesta irrilevanza”. Ulteriori problemi si pongono poi per il limite temporale di conservazione (fissato dal dl alla sentenza non più impugnabile), atteso che le captazioni potrebbero rivelarsi utili, anche ai fini difensivi, anche dopo molti anni. Inoltre, degno di particolare attenzione viene ritenuto il potere di vigilanza del Procuratore, con riferimento alla necessità di garantire e bilanciare il rispetto della privacy e il diritto di accesso delle parti processuali. Infine, si auspica l’introduzione della previsione della possibilità per il dirigente dell’ufficio di delegare ad altri magistrati dell’ufficio i poteri di controllo sul registro unico riservato dei decreti autorizzativi, atteso che negli uffici di maggiori dimensioni la concentrazione del potere in capo ad unico soggetto potrebbe creare difficoltà operative.

Con riferimento alla trasmissione di verbali e registrazioni dalla PG al PM, atteso che la norma configura uno sfasamento temporale tra tale adempimento e il versamento dei documenti stessi nell’archivio unico da parte del pm, il parere auspica l’introduzione di una norma che consenta alla pg di accedere a tali atti anche prima del versamento, ove necessario a fini investigativi.

Quanto alla acquisizione e stralcio delle intercettazioni, il parere rileva come il criterio utilizzato per l’acquisizione delle intercettazioni concernenti particolari dati personali sia troppo stringente, atteso che viene onerato il giudice di dimostrare la rilevanza delle conversazioni, mentre sarebbe stato più opportuno il diverso richiamo alla “non irrilevanza”.

Con riguardo alla discovery effettuata ai sensi degli art. 415 bis e 454 c.p.p., nel parere si osserva che i termini ivi previsti appaiono troppo ristretti in caso di un numero rilevante di intercettazioni e che gli stessi coincidono con quelli previsti per l’esercizio delle altre facoltà difensive. Per tali ragioni, si auspica l’introduzione di una maggiore flessibilità delle scansioni temporali nonché la previsione espressa del diritto di esaminare e ascoltare le intercettazioni anche nell’ambito dell’art. 454 c.p.p. Ed ancora, si auspica un intervento per armonizzare la disciplina della discovery e quella relativa agli adempimenti esecutivi delle ordinanze cautelari.

Ordinanza Sezioni Unite Penali

Devo alla grande cortesia dell’Estensore il Consigliere Piero Messini la copia dell’ordinanza di remissione alla Sezioni Unite Penali depositata ieri sulla questione di diritto secondo la quale possa essere considerata la recidiva qualificata circostanza aggravante ad effetto speciale e quindi idonea a rendere procedibili di ufficio alcuni reati contro il patrimonio per cui è stata recentemente modificato il regime di procedibilità prevedendo come necessaria la querela.

Tra l’altro a margine del Convegno della settimana scorsa a Bologna, il Consigliere Messini D’Agostini ha riferito come sua opinione personale, ma che ritengo particolarmente qualificata e quindi da conoscere, secondo la quale facendo corretta applicazione della sentenza delle Sezioni Unite in tema di art. 525 c.p.p. (la quale deve essere molto meditata e approfondita perché i margini di riassunzione della prove testimoniali restano ampi – questa invece sia chiaro è una considerazione di chi scrive) nei casi di reati a citazione diretta il mutamento della persona fisica del giudice, facendo retrocedere il processo ad una fase anteriore alla formale dichiarazione di apertura del dibattimento, consente di chiedere il giudizio abbreviato o il patteggiamento ancorché non richiesti avanti il precedente giudice.

Filippo Poggi

Liquidi per sigarette Elettroniche – Contrabbando

In questa interessante sentenza della Terza Sezione Penale è stato affermato il principio di diritto che anche l’importazione, oltre i limiti consentiti, di liquidi per sigarette elettroniche configura il delitto di contrabbando dovendosi stabilire un rapporto tra 1 ml di liquido e 5,63 grammi di tabacco convenzionale.

Insolito che ai fini della configurabilità dell’elemento soggettivo del reato ai sensi dell’art. 5 c.p. sia stato richiamato il fatto che la normativa anche secondaria che consentirebbe di fondare questa equivalenza è facilmente conoscibile siccome pubblicata sul sito Internet dell’Agenzia delle Entrate.

Filippo Poggi

Nuova prescrizione e nuova confisca penale

Faccio seguito all’invio della Relazione del Massimario per trasmettere un articolo appena pubblicato del Maestro di tanti di noi Prof. Avv. Filippo Sgubbi che disvela con la solita incisiva sobrietà le tante contraddizioni quando non vere e proprie norme che mettono il cittadino in condizione di non potersi difendere da un Erario ormai judex in causa propria.

Un altro esempio di quel Diritto Penale Totale di cui il Prof. Sgubbi ci ha detto parole pressoché definitive nel suo fortunato saggio breve della fine dell’anno scorso.

Come avvocati e come giuristi non dobbiamo e soprattutto possiamo limitarci a recepire le massime ormai vincolanti della Sezioni Unite, di una Corte Suprema che ormai diventa anche una fonte di dottrina in tempo reale con le puntuali Relazioni come quelle di ieri.

Per fortuna abbiamo in Italia una Accademia di tale autorevolezza e competenza che deve tornare ad essere la prima guida per i pratici, avvocati e giudici, nell’interpretazione delle norme.

Filippo Poggi

Elezione e dichiarazione del domicilio tra procedimenti diversi e imputato detenuto

E’ stata rimessa, con ordinanza della Terza Sezione Penale, alla Sezioni Unite Penali la questione di diritto su quali sia l’esatta interpretazione dell’art. 156 c.p.p. che prevede che in caso di detenzione dell’imputato la notifica degli atti processuali deve essere fatta presso il luogo di detenzione e non presso il domicilio eventualmente dichiarato o eletto. In questo senso opina l’ordinanza di remissione ed anche a chi scrive sembra l’interpretazione più convincente e garantita dal fatto che il detenuto è per definizione sempre reperibile e le notifiche debbano essere eseguite a mani proprie.

In al pronuncia della Quinta Sezione Penale la Suprema Corte afferma l’irrilevanza del mutamento dei reati indicati nel verbale di elezione/dichiarazione del domicilio e richiama anche una giurisprudenza risalente quanto poco persuasiva secondo la quale in caso di riunione di procedimenti (attività del PM) se anche solo in uno di questo l’imputato abbia eletto il domicilio tutte le notificazioni debbono compiersi presso quel domicilio.

Infine si nota come la Corte di Appello di Bologna dopo due sentenze delle Sezioni Unite tranchant sulla impossibilità di notificare al difensore il decreto di citazione in presenza di una dichiarazione/elezione del domicilio valida ed efficace, continua a notificare il decreto anche per l’imputato al difensore ai sensi dell’art. 157- comma 8 bis c.p.p. notifica all’evidenza nulla, ma con nullità a regime intermedio che deve essere eccepita prima dell’accertamento della regolare costituzione della parti per evitare qualunque sanatoria.

Saluti a Tutti, Filippo Poggi

Processo infinito – Parere CSM 19.12.2018

Il parere reso dal CSM in materia di sospensione della prescrizione dopo la pronuncia di primo grado in data 19.12.2018 (pagg. 4 – 14).

Quello che è avvenuto dopo anche con il mutamento di posizioni da parte di ANM da un giorno all’altro lo sappiamo bene (in allegato la relazione del Presidente Poniz).

Tra l’altro non sono nemmeno ancora stati valutati gli effetti della Riforma Orlando che avevo raggiunto la massima tensione tra esigenze di repressione e diritto ad un processo di ragionevole durata.

In questo modo tutte le inefficienze del sistema penale sono scaricate sui cittadini (sulle persone) che hanno la ventura di trovarsi indagati, imputati ed addirittura assolti in primo grado.

Ma è soprattutto la “sterilizzazione” della prescrizione del reato ad evocare il tramonto assiologico della presunzione di innocenza: con una scelta di campo che tramanda una idea di “giustizia assoluta” – secondo il principio fiat iustitia et pereat mundus, che non tollera limitazioni temporali, utilitaristiche, proporzionate quali quelle imposte dalla “pena utile” e da una idea “secolarizzata di giustizia” – si adotta un modello tanto esasperato da far ricadere sull’imputato (persino dopo una assoluzione in primo grado) il passaggio del tempo e le inefficienze della giustizia: dove il retropensiero sembra chiaro, e coincide con l’abbandono del principio in dubio pro reo in favore dell’in dubio pro republica.  (Vittorio Manes intervento al Congresso di MD in data 1/3-3-2019)

Intanto le norme della nefasta riforma Bonafede sono entrate in vigore dallo scorso 1.1.2020

Filippo Poggi

Intercettazioni telefoniche e utilizzabilità in procedimento diverso ex art. 270 c.p.p.

In questa sentenza appena depositata delle Sezioni Unite Penali è stato affermato il principio di diritto secondo il quale la nozione di “diverso procedimento” non opera quando i reati siano connessi ai sensi dell’art. 12 c.p.p. al reato per cui l’autorizzazione sia stata originariamente concessa sempre che per quel fatto-reato le intercettazioni siano ammissibile in relazione alla pena edittale. Non rilevante ai fini della nozione di medesimo procedimento il collegamento “debole” di natura probatoria di cui all’art. 371 c.p.p.

E’ evidente però che la connessione ex art. 12 c.p.p. in relazione a reati avvinti ai sensi dell’art. 81 c.p. che sul piano sostanziale rappresenta un istituto di mitigazione della pena, sul piano processuale diventa un utile e facile grimaldello per utilizzare le captazioni per reati diversi rispetto al provvedimento autorizzativo. Esito cui si dovrebbe giungere a questo punto solo ad opera del Legislatore che vieti espressamente qualsiasi utilizzabilità per reati diversi da quelli per cui ab origine siano stati rilevati i “gravi indizi di reato” e inoltre preveda, per scoraggiare intercettazioni “a strascico”, l’inutilizzabilità della captazione in caso di derubricazione del reato in altro reato per cui non siano raggiunte le soglie edittali di cui all’art. 266 c.p.p. Le captazioni in quel caso potrebbe correttamente essere utilizzate solo come autonome nuove notitiae criminis.

Filippo Poggi

Uso distorto od incauto della richiesta di equa riparazione? Il conto da pagare va da euro 1.000,00 a 10.000,00

Gli Ermellini confermano la legittimità delle sanzioni stabilite dal legislatore volte a reprimere l’uso colposo del mezzo processuale.

Lo ha sancito la Corte di Cassazione con sentenza n. 6865/17 depositata il 16/3/2017.

Tutto parte da una istanza per equa riparazione. In I° grado il Tribunale respingeva la domanda ed, altresì, condannava il ricorrente a pagare la somma di € 3.400,00 alla Cassa delle Ammende ai sensi dell’art. 5-quater della l. n. 89/2001. Si rammenta che la norma testè richiamata dispone che «con il provvedimento che definisce il giudizio di opposizione, il giudice, quando la domanda per equa riparazione è dichiarata inammissibile ovvero manifestamente infondata, può condannare il ricorrente al pagamento in favore della cassa delle ammende di una somma di denaro non inferiore ad euro 1.000 e non superiore ad euro 10.000».

Ebbene, anche in Corte d’appello l’impugnazione del cittadino subiva la stessa sorte. A base della decisione della Corte territoriale vi era la circostanza che la domanda non era stata preceduta dalla presentazione della istanza di prelievo nel processo amministrativo presupposto, ex art. 54 d.l. n. 112/2008 e successive modifiche.

Al cittadino non rimaneva che proporre ricorso in Cassazione affidando la propria difesa ad un unico motivo di denuncia, costituito dalla violazione o falsa applicazione proprio dell’art. 5-quater della l. n. 89/2001 attesa anche la esorbitanza della somma liquidata. Più nello specifico, però, il ricorrente eccepiva l’illegittimità costituzionale di tale norma perché, a proprio dire, introduceva una sanzione che finisce per incidere negativamente sulla effettiva tutela giurisdizionale nonché per svuotare la relativa gratuità, prevista per i procedimenti di equa riparazione ex art. 10, comma 1, del d.p.r. n. 115/2002.

Tuttavia, anche gli Ermellini rigettavano le istanze di difesa del ricorrente. Viene evidenziato dalla pronuncia in esame che con la sentenza n. 7326/2015 e con il provvedimento n. 5433/2016 già i Giudici di piazza Cavour avevano avuto il modo di affrontare la questione della legittimità costituzionale del medesimo articolo risolvendolo in senso negativo.

Gli Ermellini asseriscono che è indiscutibile che la prevista possibilità di una sanzione processuale svolga una funzione deterrente, scoraggiando l’uso distorto oppure incauto della istanza indennitaria.

Ma tale effetto dissuasivo è del tutto compatibile con i parametri costituzionali e, in particolare, con il principio di effettività della tutela giurisdizionale.

L’uguale ed indiscriminato accesso a qualsivoglia pretesa, anche se azzardata oppure priva di qualunque possibilità di accoglimento, non è né può essere priva di costi sociali.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it

23.12.2019

L’equo indennizzo è un credito cedibile

Lo stabilisce il Tar Trento, applicando un principio sancito dalla Cass. Civ. Sez. III n. 22601/13, ha inserito tra i crediti cedibili anche l’equo indennizzo visto che è un danno non patrimoniale dovuto alla giustizia lumaca. L’art. 69 R.D. n. 2440/23 sancisce che la cessione dei crediti vantati nei confronti della PA può avvenire anche senza il consenso del debitore, purché risulti da atto pubblico o da scrittura autenticata dal notaio notificata all’amministrazione centrale, ovvero all’ente o all’ufficio o al funzionario cui spetta ordinare il pagamento.

(Tar Trento, sez. Unica, sentenza n. 178/16; depositata il 30 marzo).

Fonte: www.dirittoegiustizia.it

23.12.2019

Maternità surrogata e rifiuto alla trascrizione in Francia

Il no alla trascrizione di un atto di nascita ottenuto all’estero – a seguito del ricorso alla maternità surrogata – nei registri dello stato civile di uno Stato non è contrario alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo.

E’ la Corte di Strasburgo a stabilirlo con la decisione C. e E. contro Francia (ricorsi n. 1462/18 e 17348/18) del 12 dicembre 2019, con la quale i giudici internazionali hanno dichiarato irricevibile i due ricorsi, uno di una coppia di cittadini francesi che aveva fatto ricorso alla maternità surrogata negli Stati Uniti e l’altro di una coppia che aveva seguito lo stesso iter in Ghana. I coniugi avevano chiesto la trascrizione, in Francia, dell’atto di nascita che li indicava come genitori, ma le istanze erano state respinte. Di qui il ricorso alla Corte di Strasburgo. Al centro dell’azione, la violazione dell’articolo 8, che assicura il diritto al rispetto della vita privata e familiare e dell’articolo 14, che vieta ogni forma di discriminazione. La Corte europea non ha accolto le tesi dei ricorrenti richiamando il parere reso dalla Grande Camera, in base al Protocollo n. 16, il 10 aprile 2019. In quel caso la Corte ha precisato che gli Stati devono prevedere il riconoscimento di un legame genitore/figlio con la madre non biologica, indicata nel certificato di nascita acquisito all’estero, ma sono liberi nella scelta delle modalità potendo, ad esempio, utilizzare l’adozione che permette di garantire l’attuazione effettiva del principio dell’interesse superiore del minore, a patto che avvenga in tempi rapidi. 

Una soluzione che non ci convince perché di fatto finisce per escludere il riconoscimento dei figli nati attraverso il ricorso alla maternità surrogata, suggerendo una scappatoia – come quella dell’adozione – che potrebbe non corrispondere né agli interessi del minore e neppure a quelli della coppia che abbia fatto ricorso alla maternità surrogata.

Malgrado l’avverso avviso della Corte EDU, c’è un’evidente violazione dell’art. 8 della Convenzione che finisce per adottare una soluzione “pilatesca” in considerazione probabilmente di elementi estranei, spesso di sapore religioso, che contrasta con il principio di non discriminazione.

In effetti, anche in Italia di dibatte ancora sull’argomento per cui l’avviso espresso della Corte finirà per influire anche sulle decisioni che riguardano casi analoghi, sui quali la Magistratura non si è ancora espressa.

Fonte: www. marinacastellaneta.it

Nota a cura  Avv. E. Oropallo

“Schedare” gli allievi in base alle loro convinzioni per l’esonero dall’ora di religione viola la Cedu

È quanto deciso dalla CEDU nel caso Papageorgiou ed altri c. Grecia.

Il caso.

I ricorrenti sono genitori ed allieve di istituti siti in piccole isole. Con la riforma, poi annullata per incostituzionalità dal Consiglio di Stato, si prevedeva un’apertura all’insegnamento anche dei valori di altri credi diversi da quello ortodosso a causa dell’incremento dei flussi migratori.

I ricorrenti hanno contestato le decisioni ministeriali circa la riforma anche «sulla base del fatto che non si prevedeva un corso di educazione religiosa obiettiva, critica e pluralista”.

In breve, contestavano non l’obbligatorietà del corso, ma la procedura dell’esonero che li obbligava a rivelare le loro convinzioni religiose, esponendoli a rischi di ghettizzazione.

I genitori sono i primi responsabili dell’educazione del figlio. L’art. 2, protocollo 1, – scrive la Corte – nel riconoscere il diritto all’istruzione, attribuisce un ruolo di primaria importanza ai genitori.

Lo Stato è perciò limitato nel suo margine discrezionale in materia: non può imporre indottrinamenti, ma rispettare le convinzioni degli allievi e dei genitori che possono anche essere liberi di non professare alcun credo.

Lo Stato ha perciò il dovere di garantire il rispetto dei diritti e delle libertà previste dalla Cedu e la funzione del legislatore non deve andare oltre questo controllo parlamentare e giudiziario, dovendo sempre equamente bilanciare interessi pubblici e privati.

Lo Stato, nel rispetto del pluralismo su cui si fonda la democrazia, non dovrebbe mai porre una persona in conflitto tra le proprie convinzioni religiose e filosofiche (e quelle della sua famiglia) e l’insegnamento della religione, prevedendo perciò l’esonero dalla stessa. Nella fattispecie, però, per ottenerlo, i genitori dovevano rilasciare una solenne dichiarazione, controfirmata dal docente di religione, in cui dichiaravano che i figli non erano cristiani ortodossi e come tali erano schedati nei registri scolastici.

La CEDU rileva come ciò possa avere effetti dissuasivi dal richiedere l’esonero anche per non rilevare le proprie convinzioni religiose e comportare un ulteriore rischio di essere emarginati, soprattutto se residenti in comunità piccole e religiosamente compatte.

Novembre 2019

Fonte: Diritto e Giustizia

www.dirittoegiustizia.it

(Avv. E. Oropallo)

Il rifiuto della Spagna di considerare la pena già inflitta in Francia è compatibile con la Convenzione EDU

Nessuna violazione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo nei casi di condanna in uno Stato pronunciata senza tenere conto della pena inflitta in un altro Stato. Lo ha chiarito la Corte europea dei diritti dell’uomo con la decisione Aguirre Lete contro Spagna (ricorso n. 29068/17) depositata il 9 luglio e resa pubblica il 29 agosto, con la quale è stato dichiarato inammissibile il ricorso presentato da 5 cittadini spagnoli condannati a 30 anni in Spagna e, per fatti commessi in precedenza, legati al terrorismo, a una pena detentiva anche in Francia (AGUIRRE LETE ET AUTRES c. ESPAGNE).

Secondo i ricorrenti, le autorità spagnole avrebbero dovuto considerare la condanna inflitta in Francia per crimini legati all’attività terroristica ETA in quanto collegati ai fatti oggetto di condanna in Spagna.

Le autorità spagnole avevano escluso questa possibilità e, quindi, i condannati si sono rivolti alla Corte europea ritenendo violato l’articolo 7 della Convenzione che riconosce il principio dell’irretroattività della legge penale più sfavorevole e il principio nulla poena sine lege.

Strasburgo, prima di tutto, è partita dalla constatazione che le decisioni rese in Spagna non hanno portato portato a un allungamento della durata della pena che è rimasta a 30 anni e non vi è stato un cumulo delle pene, non previsto dalla legislazione spagnola che non stabiliva una modifica della durata della detenzione per una condanna scontata in altro Paese, per cui la Corte europea ha dichiarato i ricorsi irricevibili.

Novembre 2019

Fonte: www.marinacastellaneta.it

(Avv. E. Oropallo)

Fiato alla speranza: l’ergastolo ostativo e la Costituzione *

di Marcello Bortolato
presidente del Tribunale di sorveglianza di Firenze

Nell’opinione pubblica, anche qualificata, continua a essere diffusa l’idea che l’ergastolo sia una pena riducibile e che il “fine pena mai” non esista. È vero il contrario. Mentre è in calo il numero dei reati, le condanne ergastolo aumentano e, tra esse, quelle all’ergastolo effettivamente senza right to hope, senza via di uscita. Ostativo, viene comunemente definito. Un magistrato di sorveglianza ci spiega bene cosa è e perché non dovrebbe avere cittadinanza nel nostro ordinamento, tanto più dopo la sentenza della Corte di Strasburgo Viola c. Italia. Lo pubblichiamo per sfatare luoghi comuni e false giustificazioni, in attesa che il 22 ottobre si pronunci la Corte costituzionale

  1. L’ergastolo ieri e oggi

La prima volta in cui mi imbattei nell’ergastolo fu quando venni chiamato, allora diciottenne, alle urne per il referendum abrogativo del 1981: non ebbi alcun dubbio, fui tra quei 7.114.719 favorevoli alla sua abolizione (cioè il 22,6% dei votanti), contro quei 24.330.954 (il 77,4%), che si erano espressi in senso contrario all’abolizione. La proposta venne bocciata, eppure nei contestuali referendum sull’abolizione delle norme sulla concessione del porto d’armi e sull’interruzione volontaria della gravidanza la risposta negativa, cioè il no all’abolizione, aveva raggiunto percentuali ben maggiori, che si attestavano tra l’85 e l’89%: ciò significa che circa il 10% di quelle stesse persone che si erano espresse in senso contrario all’abrogazione della legge Cossiga, concepita per affrontare l’emergenza terrorismo in Italia degli anni ’70, si era espresso nello stesso giorno in senso favorevole all’abolizione dell’ergastolo.

La seconda volta fu quando − molto più tardi − assunsi le funzioni di magistrato di sorveglianza: a quel punto il problema non fu più l’ergastolo ma il suo ulteriore aggravamento, quella sofferenza aggiuntiva, quell’inasprimento sanzionatorio − perché di questo si tratta – che va sotto il nome di “ergastolo ostativo”: la pena senza speranza, un passato che schiaccia il presente e toglie ogni speranza al futuro.

L’ergastolano “ostativo” ha la quotidiana sensazione di avere ben poche speranze di accorciare quel fine pena, la sensazione di morire giorno per giorno tanto da voler a volte desiderare che la condanna sia tramutata in pena di morte.

Il primo argomento da sfatare è che l’ergastolo sia una condanna simbolica che, si dice, di fatto non sconta più nessuno. Alcuni dati: 1700 circa oggi gli ergastolani di cui oltre 1200 “ostativi”: dal 2004 al 2014 vi è stato un incremento degli ergastoli del 38%, eppure da un anno all’altro diminuiscono gli omicidi (dal 2017 al 2018 il 16,3% in meno e quelli di criminalità organizzata da 48 a 30 dal 2016 al 2017; gli omicidi volontari in Italia nel 2018 sono stati 319 dei quali 134 in ambito familiare/affettivo e dunque al di fuori di un contesto di criminalità organizzata). L’incidenza percentuale degli ergastolani sul totale dei condannati definitivi tra il 1998 e il 2008 è passata dal 2,5% al 5,29%: una pena dunque tutt’altro che desueta.

  1. Ergastolo e compatibilità con la Costituzione repubblicana

Il più grave problema che si pone per l’ergastolo è quello della sua compatibilità con il principio della finalizzazione rieducativa della pena scolpito nell’art. 27 Cost.: se infatti per rieducazione non si può non intendere che reintegrazione, seppur tendenziale, dell’individuo nel contesto sociale, una misura come l’ergastolo, destinata ad escluderlo definitivamente, non può che risultare incompatibile con tale principio.

La Corte costituzionale, riaffermando invece la costituzionalità di tale sanzione, ha dovuto fare riferimento al fatto che l’ergastolo non è effettivamente tale − e cioè una pena perpetua − in quanto ammette il rientro nella società attraverso la liberazione condizionale (beneficio previsto non dall’ordinamento penitenziario ma dal codice penale all’art. 176 cp), incorrendo così in un evidente paradosso: quello di riaffermare la costituzionalità di un istituto in quanto lo stesso non sia effettivamente tale, quando avrebbe invece dovuto pronunciarsi sulla fondatezza e compatibilità dei principi, non sulla loro occasionale (e del tutto aleatoria) disapplicazione. Del resto si consideri che in termini percentuali gli accoglimenti dell’istanza di liberazione condizionale (per tutte le pene, anche temporanee) si aggirano intorno al 3% circa delle istanze, spiegabile proprio perché la liberazione condizionale è un beneficio che dal 1992 è soggetto alle stesse condizioni di ammissibilità dettate nell’art. 4-bis dell’ordinamento penitenziario per le misure alternative, prima fra tutte il requisito della “collaborazione” la cui mancanza di fatto rende ostativa la pena perpetua.

Con la sentenza n. 264 del 22 novembre 1974 l’ergastolo viene dichiarato conforme alla Costituzione con il rilievo che la funzione rieducativa non è l’unica funzione cui la pena deve assolvere, affiancandosi a tale funzione anche quella dissuasiva, preventiva e di difesa sociale (è la teoria “polifunzionale” della pena).

Si è così arrivati in Italia all’ergastolo moderno, pena mantenuta nella sua perpetuità ma temperata dalla concessione di molti benefici penitenziari [1]. Si è assistito ad un’opera di progressiva spoliazione dell’istituto che non si è voluto fin qui eliminare nel tentativo di renderlo compatibile con la finalità rieducativa della pena: ma il limite dell’ergastolo ostativo (che costituisce la stragrande maggioranza degli ergastoli) nondimeno − da 27 anni − è ancora lì.

Oggi la questione, dopo la condanna in sede europea (CEDU: sentenza Viola c. Italia del 13 giugno 2019), è tornata nuovamente all’esame della Corte costituzionale (sulle due questioni di legittimità costituzionale dell’art. 4-bis sollevate dalla prima Sezione della Corte di cassazione e dal Tribunale di sorveglianza di Perugia nei casi, rispettivamente, Cannizzaro e Pavone, la discussione è fissata il prossimo 22 ottobre) proprio perché il requisito della collaborazione rende di fatto inapplicabili tutti i benefici penitenziari. Non si è mai dunque spenta in Italia l’inquietudine, nonostante le passate stagioni terroristiche, la ferocia della criminalità organizzata e l’efferatezza di alcuni delitti, circa la compatibilità dell’ergastolo con le acquisizioni di civiltà maturate e, in particolare, sul nesso problematico che intercorre fra pena perpetua e diritti fondamentali, la prima irrimediabilmente intrecciata ad un retaggio millenario di vendetta sociale, del cui classico emblema (la pena di morte) essa ha preso ambiguamente il posto nei nostri tempi, i secondi proiettati invece verso il futuro e di fronte al quale l’alternativa ormai è tra la coscienza lacerata (i casi italiano e tedesco in cui l’istituto è mantenuto ma progressivamente sgretolato) [2] ovvero l’abolizione, secondo la strada imboccata da Spagna e Portogallo che, usciti da sanguinose dittature, hanno radicalmente rinnovato i propri ordinamenti cancellando nel sistema delle pene ogni residuo dei lasciti ancestrali. Il caso italiano, in particolare, tradisce ancora una volta il disagio a contemperare la pena massima con l’impianto della Carta: l’ergastolo si giustifica tanto quanto risulti abolito nei fatti, circostanza quest’ultima che, almeno per i 1255 ergastolani “ostativi”, non si verifica. Questa situazione non può durare a lungo risolvendosi in un’ipocrisia prolungata e per di più annidata in un istituto fortemente simbolico: non dimentichiamo che l’ergastolo infatti nasce (da Beccaria) come alternativa alla pena capitale, confermata dal fatto che esso è tuttora sconosciuto negli Stati in cui per i delitti più gravi è ancora in vigore la pena di morte.

  1. L’ergastolo “ostativo”

L’ergastolo ostativo, l’ergastolo degli “uomini ombra”, dei “senza speranza”, crea disagio, prima di tutto nel magistrato di sorveglianza. Perché?

Perché difronte all’ostatività (che discende dalla mancata collaborazione) appare del tutto irrilevante il percorso rieducativo del condannato: il giudice è impotente, nonostante l’approccio delle teorie della cd “nuova prevenzione” tenda a riproporre ampio spazio al riconoscimento della concretezza e della specificità delle situazioni in cui un reato avviene, delle caratteristiche e delle motivazioni dell’autore, della sua evoluzione personale; è sempre necessario avere il coraggio di guardare a fondo nella realtà dei fatti e delle persone coinvolte anche nei crimini più efferati e devastanti, evitando di rimuovere l’orrore con la durezza della sanzione che allontana e definitivamente seppellisce. Il giudice difronte all’ergastolo ostativo è espropriato del potere di decidere se accordare un qualche riconoscimento ai progressi del reo, progressi che possono non avere nulla a che vedere con la sua volontà di collaborare con la giustizia.

Vanno ricordate poi le enormi difficoltà dell’accertamento della collaborazione cd “impossibile” o “inesigibile” (alternativa alla collaborazione effettiva, essa consiste nell’impossibilità, riconosciuta dalla legge, di offrire una reale collaborazione poiché su quella vicenda penale ormai è stata fatta piena luce): si tratta di un accertamento rimesso a fattori esterni su cui il condannato non ha alcun dominio e che dipende perlopiù dai pareri delle Procure che hanno svolto le indagini.

Il magistrato di sorveglianza difronte all’ergastolo ostativo è inoltre consapevole dell’‘anima nera’ della preclusione dell’art. 4-bis: quel surplus di pena, quell’inasprimento sanzionatorio che rende la pena perpetua una pena senza speranza ed ha le mani legate perché non può nemmeno valutare le ragioni del silenzio di chi non vuole collaborare con la giustizia. Sia chiaro, la collaborazione è strumento strategico della lotta alla criminalità organizzata, insostituibile mezzo di repressione e prevenzione dei reati, e dove è “effettiva” consente ai condannati l’accesso anticipato alle misure alternative (a differenza di quella cd “impossibile”) ma le ragioni di una mancata collaborazione possono essere anche nobili o comunque comprensibili (la scelta morale di non voler barattare la propria libertà con quella degli altri, la paura di esporre i propri familiari a ritorsioni e vendette) eppure non sono valutabili dalla magistratura di sorveglianza che deve limitarsi a prenderne atto anche difronte alla dimostrazione, del tutto disgiunta dall’assenza di collaborazione, di una cessata pericolosità, magari dopo moltissimi anni dal reato.

Il problema è allora anche quello della libertà di autodeterminazione, che ha a che fare con la “dignità”, divenuto parametro costituzionale tout court: la preclusione derivante dalla mancata collaborazione non è solo irrazionale, è “violenta” perché coarta la libertà morale e rende l’uomo da fine a mezzo, il che significa usare gli strumenti della rieducazione per scopi che sono altri (assicurare alla giustizia ulteriori colpevoli) cioè negare in radice la funzione del magistrato di sorveglianza.

Dobbiamo inoltre chiederci se la mancata collaborazione sia effettivamente sempre e comunque sintomo di dissociazione dalle organizzazioni criminali di appartenenza. Non sono sconosciute da un lato collaborazioni del tutto strumentali ed anche “false” e, dall’altro, l’esistenza di più sicuri indici di rescissione dei legami. Si pensi che il “ravvedimento” (pieno riconoscimento della propria responsabilità ed assunzione di impegni riparatori, traduzione laica del concetto di “emenda”) è sufficiente per ottenere la liberazione condizionale (l’unico beneficio che può cancellare l’ergastolo) ma non basta per poter accedere ai benefici anche minori a chi non abbia collaborato pur ammettendo le proprie responsabilità. Con il ravvedimento il reo dimostra di aver raggiunto un grado di rieducazione tale da meritare il massimo beneficio ma se non fa i nomi dei correi non può accedervi: c’è qualcosa di fortemente irrazionale prima che ingiusto in questo meccanismo.

  1. La quaestiodi costituzionalità

Ci sono degli evidenti limiti nel petitum delle due questioni di costituzionalità sollevate e che verranno discusse il prossimo 22 ottobre: esse colpiscono infatti l’ostatività del solo permesso-premio, il primo beneficio che l’ergastolano può ottenere. Se esso costituisce lo “snodo” cruciale del trattamento, tuttavia la progressione trattamentale è l’“in sé” della rieducazione. Tutti i benefici – nell’ottica della preclusione – sono uguali, non si possono distinguere: se cadrà la preclusione tutti i benefici e le misure alternative saranno, senza distinzioni, ammissibili. È dunque necessario colpire la preclusione in sé, la sua irrazionalità intrinseca.

Spesso facendo il giudice mi chiedo: ma cattivi si diventa? anch’io ne sarei capace?

Vi sono studi criminologici che hanno passato in rassegna il genocidio in Ruanda, i suicidi e gli assassini di massa dei membri di diverse sette religiose, gli orrori dei campi di concentramento nazisti, la tortura praticata dalla polizia militare e civile e la violenza sessuale perpetrata su parrocchiani da sacerdoti cattolici. Si ricorda spesso il cd. “esperimento carcerario di Stanford”: nel 1971 sono stati reclutati con un annuncio su un giornale alcuni studenti “sani, intelligenti, di classe media, psicologicamente normali e senza alcun precedente violento”. L’esperimento doveva durare due settimane e coinvolgere i soggetti, suddivisi casualmente tra un gruppo di guardie ed uno di detenuti, in una simulazione di vita carceraria, allo scopo di mettere a fuoco le reazioni dei detenuti. Dopo soli cinque giorni, i lavori furono però interrotti: gli studenti che rivestivano il ruolo delle guardie si erano inaspettatamente trasformati in spietati aguzzini. È l’“effetto Lucifero”: la possibilità, cioè, che alcune particolari situazioni siano in grado di indurre persone ordinarie a compiere i peggiori crimini.

Il ricordo di quell’esperimento deve farci riflettere che certamente emergono situazioni difficili e per molti aspetti inquietanti, che esistono delitti assai efferati rispetto ai quali non sembra esservi alcuna pena idonea a compensare il male che hanno provocato, ma che, nel contempo, ogni situazione va sempre restituita alla sua complessità, alle sue caratteristiche reali e, soprattutto, alla sua effettiva possibilità di evoluzione. Ogni uomo va trattato come uomo: si tratta di una strada difficile, da praticare e svelare di caso in caso anche se questo è meno appagante della punizione esemplare.

[*] Testo dell’intervento al Convegno “Eppur si muove. Carcere, costituzione, speranza”, Reggio Calabria – 4 ottobre 2019

[1] La legge Gozzini del 1986 ha abbassato il tetto di ammissione alla liberazione condizionale da 28 a 26 anni: dopo cinque anni di libertà vigilata, la pena si estingue e l’ergastolano diviene persona del tutto libera; la stessa legge stabilisce che la pena dell’ergastolo debba essere espiata negli stessi istituti in cui si espiano le pene detentive a tempo e prevede la possibilità per l’ergastolano di essere ammesso all’esperienza dei permessi-premio e al lavoro all’esterno dopo 10 anni; prevede la concedibilità della misura alternativa della semilibertà dopo l’espiazione di almeno vent’anni di pena ed infine la concedibilità della liberazione anticipata, intesa come sconto di pena di giorni 45 per ogni semestre, anche all’ergastolano, stabilendo che detto beneficio sia computabile nella misura della pena che occorre avere espiato perché questi sia ammesso ai benefici dei permessi-premio, della semilibertà e della liberazione condizionale.

[2] Nel caso italiano, nell’ipotesi di integrale concessione della riduzione di pena per liberazione anticipata, l’ergastolano (purché non ostativo) può aspirare alla concessione del suo primo permesso-premio dopo 8 anni di pena, della semilibertà dopo 16 anni di pena e della liberazione condizionale dopo 21 anni di pena.

15 ottobre 2019

CEDU: Guida sull’articolo 1 della Convenzione e sulla nozione di giurisdizione

Recentemente, allo scopo di favorire una corretta interpretazione della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e individuare l’ambito applicativo della stessa, la Cancelleria della Corte ha adottato una una guida per chiarire la nozione di giurisdizione, di responsabilità e di obbligo del rispetto dei diritti umani.

La guida è basata sulla giurisprudenza della Corte relativa all’art. 1, la quale indica i principi chiave in materia. Le sentenze e i provvedimenti resi dalla Corte servono a chiarire, salvaguardare e sviluppare le norme della Convenzione, contribuendo al rispetto da parte degli Stati degli obblighi che essi hanno assunto in qualità di parti contraenti.

Si legge ancora nella nota allegata alla guida che il sistema adottato dalla Convenzione ha per finalità di chiarire, nell’interesse generale, i problemi che si pongono in materia di ordine pubblico, riaffermando il ruolo della Convenzione in quanto “strumento costituzionale dell’ordine pubblico europeo” nel settore dei diritti dell’uomo.

Di fatto la guida è uno strumento utilissimo per conoscere quale sia e difendere il lavoro degli operatori del diritto, ed in particolare il lavoro dell’avvocato onde evitare un rigetto del ricorso per inammissibilità.

La guida riporta alla fine un elenco delle sentenze più interessanti e più recenti emesse dalla Corte.

La guida (inglese e/o francese) è scaricabile dal sito della Cedu.

https://echr.coe.int/

Ottobre 2019

Avv. E. Oropallo

 

Cosa si intende per spazio vivibile in cella?

Ancora una volta la Corte di Cassazione è chiamata a pronunciarsi sulla vicenda dello spazio minimo di cui il detenuto possa godere all’interno della cella. Lo fa con una recente sentenza la n. 38933/19 depositata il 23 settembre, con la quale interpreta in forma restrittiva l’interpretazione della CEDU sull’art. 3 della Convenzione e fatta propria dalla Cassazione.

Vediamo la vicenda esaminata dalla Corte.

Il ricorrente si duole del criterio applicato per la determinazione dello spazio vitale all’interno della cella, ritenendolo non conforme all’art. 3 CEDU, in quanto in quello disponibile era stato incluso anche quello occupato dal tavolo, limitativo della libertà di movimento. In effetti, rappresenta un principio giurisprudenziale ormai consolidato quello secondo cui “ai fini della determinazione dello spazio, pari o superiore a tre metri quadrati, da assicurare a ogni detenuto, dalla superficie lorda della cella deve essere detratta l’area occupata dagli arredi”. Dal computo, precisa la Cassazione, non possono essere esclusi gli arredi non fissi al suolo, quali il tavolo, le sedie e il letto singolo.
Tuttavia, prosegue la Corte, che il punto centrale del ragionamento è quello di stabilire se il detenuto abbia la possibilità di muoversi normalmente nella cella.
Nella fattispecie, gli arredi rimovibili, quali il tavolo e gli sgabelli, non sono idonei a restringere o connotare negativamente lo spazio disponibile della cella, tuttalpiù se si considera che concorrono alla definizione della vivibilità dell’ambiente.
Pertanto, la Suprema Corte ritiene il ricorso infondato e lo rigetta.

Sinceramente, questa decisione non ci convince perché, che siano mobili o meno gli arredi della cella, si tratta di un’occupazione di spazio che viene sottratto al detenuto né si può ritenere – come fa la Corte – che tali arredi concorrano alla vivibilità dell’ambiente.

Altra decisione sempre della Corte di Cassazione – 1° Sez. Pen. n. 49793 del 30.10.2017 ha sostenuto una tesi diametralmente opposta, ritenendo doversi detrarre dallo spazio quello occupato dagli arredi, compreso il letto, richiamando altra pronuncia della Cassazione (Cass. Sez. I, n. 52819 del 9 settembre 2016) laddove precisa che “per spazio minimo individuale in cella collettiva va intesa la superficie della camera detentiva fruibile dal singolo detenuto ed idonea al movimento, il che comporta necessità di detrarre dalla complessiva superficie non solo lo spazio destinato ai servizi igienici e quello occupato dagli arredi fissi ma anche quello occupato dal letto”.

Vale il richiamo operato alla giurisprudenza della Corte EDU secondo cui “l’accertamento della sussistenza di uno spazio interno della cella inferiore ai 3mq., non determina, di per sé, violazione dell’art. 3 della Convenzione ma una forte presunzione di trattamento inumano e degradante, superabile solo attraverso l’esame congiunto e analitico delle complessive condizioni detentive e della durata di tale restrizione dello spazio minimo”, (sentenza della Grande Camera del 20.10.2016).

La Corte Suprema pertanto accoglie il ricorso e dichiara l’annullamento dell’ordinanza con rinvio al Tribunale di Sorveglianza di Roma perché proceda ad un nuovo esame della domanda conformandosi al seguente principio di diritto:

per spazio minimo individuale del detenuto in cella va intesa la superficie della camera detentiva fruibile dal singolo detenuto occupante la cella ed idonea al movimento: con conseguente necessità di detrarre dalla complessiva superficie non solo lo spazio destinato ai servizi igienici e quello occupato dagli arredi fissi ma anche quello occupato dal letto”.

Ottobre 2019

Fonte: D&G

Nota a cura

Avv. E. Oropallo

Anche dopo la riforma, la difesa evitabile non è mai legittima

Lo dice la Cassazione, ancorando saldamente la propria valutazione a parametri classici, legati al rapporto causale tra azione e reazione ed all’inevitabilità della scelta di reagire all’aggressione, rimasti immutati nel tempo.

Va sottolineato che il ricorrente, dopo aver radicato l’impugnazione, ha chiesto espressamente che s’applicasse al caso la nuova disciplina, favorevole al reo, che ha regolato da qualche mese la materia.

La sentenza. La Sezione I – su parere conforme del Procuratore generale, che s’era opposto all’operatività dell’invocata esimente, precisando che ne risultavano carenti i presupposti nel sopravvenuto contesto normativo – rigetta il ricorso, condannando il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Secondo la Corte che “Anche a voler considerare la richiesta nella fisionomia frutto degli interventi del 2006 e del 2019 – da prendere in considerazione, per favor rei, seppur pubblicata prima, ma entrata in vigore dopo l’udienza di trattazione – della legittima difesa mancano qui requisiti essenziali: da un lato, non c’era alcun nesso eziologico tra offesa (neppure consumata) e reazione; dall’altro, poi, vi era manifesta sproporzione tra il pregiudizio subito e l’aggressione portata, in presenza, per di più, della chiara possibilità di sottrarsi al confronto con la vittima, chiedendo l’intervento delle forze dell’ordine”.

Rimane intatto, così, il principio di diritto espresso nel previgente regime, per il quale “non è invocabile la legittima difesa da parte di colui che accetti una sfida ponendosi volontariamente in una situazione di inevitabile pericolo per la propria incolumità”                       (in proposito, si cita, tra le altre, Cass., Sez. I Pen., 13.9.2017, n. 56330, RV. 272036).

Ottobre 2019

Fonte D&G

Avv. E. Oropallo

Ai sensi del d.m. n. 127/2004 i minimi tariffari sono inderogabili

Lo ribadisce la Corte di Cassazione con la sentenza n. 22742/2019 che trae origine dal ricorso presentato da una donna avverso la sentenza con cui la Corte di Appello di Roma, riformando solo parzialmente la precedente pronuncia di primo grado, aveva accolto il motivo di gravame relativo alla riduttiva liquidazione degli esborsi e delle spese di CTU sostenuti, respingendo tuttavia le altre censure proposte.
La ricorrente era stata coinvolta in un grave incidente stradale per il quale era stata riconosciuta in primo grado la colpa esclusiva del conducente di un altro autoveicolo.

Per quanto qui di interesse, la ricorrente ha dedotto la violazione e la falsa applicazione dell’art. 24 L. n. 794/1942 e delle tariffe professionali vigenti disciplinate dal d.m. n. 127/2004, assumendo che il valore della controversia era molto più alto di quello al quale i Giudici di merito avevano fatto riferimento per la liquidazione, a suo dire riduttiva.
Accogliendo il ricorso, la Corte di Cassazione ha precedentemente rilevato la pacifica applicabilità al caso di specie del d.m. n. 127/2004.

Gli Ermellini hanno precisato che, ai fini del rimborso delle spese di lite a carico della parte soccombente, il valore della controversia va fissato – in armonia con il principio generale di proporzionalità e adeguatezza degli onorari di Avvocato – nell’opera professionale effettivamente prestata, ove riconosca la fondatezza dell’intera pretesa.
Nel caso di specie, la liquidazione delle spese complessivamente effettuata nella sentenza di primo grado e oggetto di censura in appello, risulta erronea in quanto le somme indicate si collocano al di sotto dei minimi tariffari vigenti all’epoca della decisione in cui sussisteva il vincolo legale della loro inderogabilità, tenuto conto che, oltretutto, la Corte territoriale non ha esplicitato alcunché sulle ragioni degli inferiori importi liquidati.

In altre parole, i minimi tariffari devono ritenersi inderogabili a meno che la parte interessata, in caso di manifesta sproporzione, non presenti il parere del Consiglio dell’Ordine competente relativo a una inferiore liquidazione.

Fonte: D&G – Settembre 2019

Compenso avvocati: opposizione al decreto di liquidazione e dovere del giudice di chiedere i documenti

Il principio è stato espresso dalla Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 22795/19, depositata il 12 settembre, nell’ambito di un giudizio di opposizione al decreto di liquidazione delle spese di giustizia introdotto, ex art. 170 d.P.R. n. 115/2002, dal difensore di una parte ammessa al gratuito patrocinio. All’avvocato era stata liquidata una minima somma dei compensi richiesti, ed in particolare quelli relativi al solo giudizio di rinvio, non anche al giudizio dinnanzi alla Corte d’Appello, per cui il Tribunale riteneva che il legale non avesse fornito sufficiente documentazione probatoria.

L’avvocato impugnava la decisione trovando sul punto il favore dei Giudici della Suprema Corte, laddove affermano che nelle controversie di opposizione a decreto di pagamento delle spese di giustizia, ai sensi dell’art. 15 d.lgs. n. 150/2011, il Presidente può richiedere a chi ha provveduto alla liquidazione o a chi la detiene, gli atti, i documenti e le informazioni necessarie ai fini della decisione.

La locuzione “può”, tuttavia, non va intesa come mera espressione di discrezionalità, bensì come vero e proprio dovere, dove si riscontri una totale mancanza o insufficienza probatoria.

Nel caso in questione, il giudice ha errato per aver omesso di chiedere al ricorrente la necessaria documentazione probatoria, sull’assunto per cui la domanda sarebbe apparsa del tutto carente di prova.

Per questo motivo Corte di Cassazione accoglie il ricorso del legale cassando l’ordinanza impugnata.

Fonte: D&G – Settembre 2019

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Etilometro – La prova del corretto funzionamento spetta al PM

In allegato questa importantissima sentenza della Quarta Sezione Penale depositata oggi che mi è stata segnalata dall’amico e Collega Piero Monteleone.

La sentenza sulla base della esegesi della giurisprudenza costituzionale applicabile in materia di sanzioni amministrativa, evidenzia l’incongruenza della interpretazione finora maggioritaria secondo la quale proprio nella materia penale incomberebbe sull’imputato la prova (diabolica) del malfunzionamento dell’etilometro, la sua omologazione e la regolarità delle revisioni periodiche.

Invece questo onere secondo i principi generali non può che incombere sul Pubblico Ministero e per questo la sentenza di condanna è stata annullata con rinvio.

Non sappiamo se tale orientamento sovvertirà quello attuale come sarebbe chiaramente giusto tanto chiari sono i principi che finalmente hanno prevalso.

Possiamo dire però che il Presidente del Collegio era il Dott. Andrea Montagni un tempo Giudice Penale a Forlì, magistrato dalla fulgida carriera ed attualmente autorevole componente delle Sezioni Unite Penali.

Filippo Poggi