Le specializzazioni forensi: prima parziale modifica del regolamento

Con sentenza del 14.4.2016 il TAR Lazio ha parzialmente accolto i diversi ricorsi presentati dall’ANAI, OUA e ANF, Ordini Forensi e singoli avvocati presentati contro il regolamento specializzazioni. In particolare il TAR ha respinto in blocco ben sei dei motivi posti a base del ricorso, accogliendo solo il terzo dei motivi con il quale i ricorrenti hanno censurato l’art. 3 del regolamento concernente la individuazione dei settori di specializzazione la quale a giudizio dei ricorrenti – si legge in sentenza “sarebbe intrinsecamente irragionevole ed arbitraria oltre che illogicamente omissiva di discipline giuridiche oggetto di codificazione o di discipline oggetto di giurisdizioni dedicate”.

La prospettazione – ritiene il TAR – deve essere condivisa…L’incompletezza dell’elenco era stata già rilevata dal Consiglio di Stato”, decidendo dunque di annullare l’art. 3 del regolamento per cui questo articolo andrà riscritto facendo spazio ad altre specializzazioni, adottando un criterio più organico.

Non nasconde la sua soddisfazione l’ANAI che in un comunicato stampa ha ribadito che “il TAR Lazio ha sostanzialmente demolito il regolamento sulle specializzazioni che dovrà essere rifatto dal Ministero della Giustizia”.

L’ANF auspica che “si possa realizzare quel momento di reale confronto che è mancato nel corso di tutto l’iter di formazione del regolamento annullato oggi dal TAR”.

Chi si era pronunciato contro questo ricorso – associazioni specialistiche in prima fila – scrivono che la sentenza del TAR Lazio dimostra “il completo fallimento del tentativo di affossare il regolamento sulle specializzazioni, che viene confermato nel suo impianto generale”.

Apparentemente, tutti sembrano soddisfatti di questa sentenza: sia i ricorrenti per il risultato ottenuto sia le altre parti per quello che è stato confermato. Perché tutta questa battaglia intorno a questo regolamento sulle specializzazioni? Innanzitutto non nascondiamo il timore che si possa creare una frammentazione senza che si proceda a migliorare la preparazione generale dell’avvocatura.

Il conseguimento della specializzazione presuppone un lavoro assiduo di ricerca teorica, di studio accompagnato da un approfondimento delle tecniche del processo, delle specificità del settore, e non solo degli aspetti tecnici ma anche a tener conto di quelli che sono gli invitabili riflessi umani e sociali. Qualche commentatore ha ricordato come stranamente non sia stato previsto il conseguimento di una specializzazione nel settore delle immigrazioni. In particolare, manca, a nostro avviso, qualsiasi riferimento ai nuovi settori emergenti dei diritti civili, della difesa contro le discriminazioni sempre più laceranti del tessuto sociale. Bisogna fare uno sforzo per rispondere anche a queste nuove realtà sociali che prevedono la conoscenza delle leggi nazionali ed europee, degli ordinamenti giuridici di altri Stati – all’interno e all’esterno della UE – per dare un’assistenza più qualificata a quei soggetti spesso dimenticati dal legislatore ma che son quelli più a rischio sotto il profilo sociale ed economico.

Ritengo che questa sia un’esigenza molto spesso dimenticata ma i conflitti sociali e la difesa dei diritti delle minoranze e dei soggetti più deboli socialmente esigono una preparazione del difensore a 360 gradi. La sfida della globalizzazione è anche una sfida fatta di cambiamenti e un’avvocatura del terzo millennio non può presentarsi impreparata a questa sfida.

Aprile 2016

Nota a cura Avv. E. Oropallo

Avvocati stabiliti e titolo di Avokat conseguito in Romania: ciò che conta è l’organo (rumeno) che lo ha rilasciato

Con una recente ordinanza (Cass. Sezioni Unite ordinanza n. 6464/16 depositata il 4/4) la Corte di Cassazione ha ribadito che possono essere riconosciuti in Italia gli iscritti che abbiano conseguito il titolo di Avokat rilasciato dalla UNBR (Uniunea Nationala a Barourilor din Romania Baroul Bucaresti), con sede in Bucarest.

Nel caso specifico la Corte ha confermato la decisione del Consiglio dell’Ordine italiano che aveva disposto la cancellazione di un soggetto che aveva chiesto l’iscrizione ad un altro organismo, nella fattispecie Unionea Natinala a Barourilor din Bota Ordine Costituzional, Struttura Bota, non autorizzato in tal senso dal Ministro della Giustizia Rumeno. In effetti, il Ministero della Giustizia Italiano – attraverso il sistema IMI – ha accertato che l’unico organismo competente ad operare in questa materia attraverso il sistema di cooperazione europea – era esclusivamente il primo. Di qui la sussistenza dell’interesse pubblico alla rimozione dell’iscrizione nell’albo degli avvocati stabiliti del soggetto privo del titolo abilitante allo svolgimento della professione.

(D & G 5.4.2016)

Aprile 2016

(Nota a cura avv. E. Oropallo)

Sistema Giustizia? L’Italia maglia nera in Europa

Questo è quanto ritiene la Commissione Giustizia dell’UE che l’11 aprile scorso ha pubblicato l’annuale quadro di valutazione UE sulla Giustizia dal quale emerge che il nostro sistema è lento e farraginoso (peggio fanno solo Grecia e Malta) ma soprattutto che è molto diffusa la sfiducia nei confronti della magistratura. L’analisi è relativa al quinquennio 2010-2014. Per quanto concerne i tempi, malgrado tutti gli sforzi fatti, si sono allungati. La durata di processo civile in primo grado è passato da 493 a 532 giorni (comprese le liti innanzi il GdP), malgrado la forte diminuzione delle pendenze e di nuove liti: segnale chiaro di sfiducia nel sistema.

Ancora, rileva la Commissione siamo al quintultimo posto per la promozione e la risoluzione delle liti tramite la mediazione, malgrado la sua obbligatorietà. In compenso – non è una novità – resta elevatissimo il numero degli avvocati: 378 ogni 100.000 abitanti. Per quanto riguarda la valutazione della Magistratura, il giudizio non è meno severo e preoccupante. Sono pochi, solo 11 ogni 100.000 abitanti, pochissime le donne, soprattutto nelle Corti superiori.

La Commissione segnala che non è previsto un obbligo di aggiornamento continuo e multisettoriale e solo lo 0,4% dei giudici si aggiorna sul diritto dell’UE o di un altro Stato membro. Per quanto riguarda la mancanza di indipendenza della magistratura la Commissione ritiene che sia troppo influenzata da interessi economici o di altra natura, ma soprattutto dal Governo e dalla politica. E’ quanto accade ormai da diversi anni e spesso, per avere le spalle coperte, i governi si affidano ai membri della magistratura nei settori più delicati. Senza dimenticare che gli ex magistrati si ritrovano spesso sui banchi del Parlamento, a sottolineare lo stretto rapporto tra settore politico e la magistratura: peggio di noi fanno solo Bulgaria e Slovacchia.

Questo giudizio impietoso di un organo così autorevole della UE, come la Commissaria alla Giustizia, non fa che confermare il grave stato di salute in cui versa il sistema giudiziario in Italia.

Purtroppo tutto ciò è frutto di un sistema sociale – economico minato da una diffusa corruzione che sembra ormai difficile da eliminare, poiché essa penetra tutti i settori della vita associata, quello dell’economia, degli appalti, dei servizi vanificando ogni tentativo di bonifica malgrado tutti i successi vantati da questo governo.

D&G 12.4.2016

(commento a cura Avv. E. Oropallo)

 

Reati depenalizzati e revoca delle statuizioni civili

In questa sentenza appena depositata dal Tribunale Penale di Forlì si è stabilito che per i reati depenalizzati dal D. Lgs. n. 7/2016 (in questo caso si trattava del reato di ingiuria) oltre alla assoluzione perché il fatto non è (più) previsto dalla legge come reato, devono conseguire le eventuali statuizioni civili disposte dal giudice di primo grado.

Il Tribunale ha valorizzato una interpretazione più rigorosamente aderente al dettato normativo, oltre al principio generale per cui l’azione civile per il risarcimento del danno se non esercitata nella sede propria, segue le sorti degli adattamenti del processo penale.

Filippo Poggi

Avvocato stabilito ed esercizio della professione

1) Prova attitudinale

Due recenti pronunzie della Suprema Corte si sono occupate di alcuni aspetti dell’attività in Italia di chi abbia conseguito all’estero il titolo di avvocato. Una prima e più importante è quella resa dalla Suprema Corte a SS.UU. (sent. n. 5073/16 depositata il 15.3) la quale ha chiarito che l’avvocato stabilito che abbia acquisito la qualifica professionale in altro Stato membro dell’UE, può ottenere la dispensa della prova attitudinale di cui all’art. 8, d. lgs n. 115/1992 qualora abbia esercitato in Italia, in modo effettivo e regolare, la professione con il titolo professionale di origine, per almeno tre anni, a decorrere dalla data di iscrizione nella sezione speciale nell’albo degli avvocati.

In effetti, la Corte ha riconosciuto che chi abbia esercitato in Italia col titolo di abogado, ad es. se proveniente dalla Spagna, per almeno tre anni, può richiedere il passaggio dell’iscrizione all’Albo ordinario, senza dover sostenere la prova attitudinale prevista dall’art. 82 d.lgs. n. 96/2001.

Diversamente, se l’avvocato stabilito ha esercitato in Italia utilizzando impropriamente il titolo di avvocato, ebbene non potrà ottenere la dispensa. Ancora, aggiunge la Corte, che “per esercizio effettivo e regolare della professione s’intende l’esercizio reale dell’attività professionale senza interruzioni che non siano quelle dovute agli eventi della vita quotidiana”, aggiungendo che“l’esercizio della professione di avvocato senza aver conseguito in Italia la relativa abilitazione ovvero l’iscrizione mediante dispensa ai sensi art. 12 cit. integra la condotta materiale del reato, previsto dall’art. 348, di abusivo esercizio della professione, precisando, però, che se la condotta illecita sia stata svolta in buona fede, sotto l’aspetto della eventuale responsabilità penale, la mancanza del dolo esclude il reato”.

Sentenza ineccepibile sotto il profilo giuridico, tenuto conto della normativa vigente ma ci si consenta di ricordare che spesso, come è stato denunciato tante volte da diverse organizzazioni sindacali – ultima in linea di tempo l’ANAO – l’esame di Stato in Italia è diventato un vero e proprio terno al lotto per cui non avviene sempre che a superarlo siano i colleghi meglio preparati.

Giustificata dunque la scelta di tentare la strada per ottenere lo status di “avvocato stabilito”, anche per chi per lunghi anni ha esercitato in Italia sia pure iscritto nella sezione di avvocato praticante.

Credo che siano maturi i tempi per modificare l’esame di Stato, che preveda innanzitutto che la selezione avvenga già nell’ambito universitario, in modo da migliorare la professionalità e la preparazione dei candidati, senza imporre un rituale che alla fine si è dimostrato inidoneo a selezionare effettivamente i più meritevoli.

Fonte: Diritto & Giustizia del 16.3.2016

2)  Requisito della condotta specchiatissima e illibata

Ancora la Suprema Corte – a SS.UU. Civili – con sentenza n. 4252/16 depositata il 4.3.2016 ha stabilito che l’iscrizione nella sezione speciale dell’Albo degli Avvocati stabiliti, ai sensi art. 3 – 2° c. della direttiva n. 98/5/CE e dell’art. 6 – 2° c. d. lgs. n. 96/01 è subordinata alla sola condizione della documentazione che attesti l’avvenuta iscrizione presso la corrispondente Autorità di altro Stato membro.

Nel caso in esame, il Consiglio dell’Ordine aveva rifiutato l’iscrizione all’albo speciale degli avvocati stabiliti di un professionista “abogado” per aver riportato condanna per reati di falsità materiale e contraffazione di pubblici sigilli. Posizione condivisa dal CNF ma la Corte ha stabilito che gli unici obblighi dell’avvocato stabilito sono quelli di essere residente in Italia e di eleggere domicilio presso un collega iscritto presso la sezione ordinaria. Solo quando, trascorsi tre anni, l’avvocato stabilito richieda l’iscrizione presso la sezione ordinaria dell’Albo, il CdO potrà valutare il possesso o meno dei requisiti da parte del candidato, così come previsto per chiunque richieda l’iscrizione all’Albo ordinario, senza distinzione tra il cittadino italiano che risieda in Italia e il cittadino di altro Stato membro che abbia acquisito il titolo all’estero. E questo anche quando la richiesta venga fatta da cittadino italiano che abbia acquistato il titolo in altro Stato dell’UE. Ovviamente, il CdO, in questo ultimo caso, potrà valutare se si tratta di ipotesi di abuso del diritto, ostativo all’iscrizione.

Ipotesi che, a nostro avviso, non sussiste perché – come si è espressa anche la Corte di Giustizia – non può essere negato al cittadino italiano in questo caso lo stesso trattamento che viene riservato al cittadino di un altro Stato membro che richieda di essere iscritto in Italia nell’Albo ordinario, dopo i tre anni di esercizio in Italia. Comunque, per il CNL il problema resta ancora aperto.

Fonte: Diritto & Giustizia 7.3.2016

(Commento a cura avv. Eugenio Oropallo)

Richiesta di abbreviato successiva al patteggiamento respinto

In questa sentenza appena depositata si afferma chiaramente che almeno nel giudizio introdotto con citazione diretta, se respinta la richiesta di patteggiamento l’imputato può richiedere immediatamente dopo e comunque prima dell’apertura del dibattimento, di essere ammesso al giudizio abbreviato (ponti d’oro ai riti alternativi, un principio che informa tutto l’ordinamento processuale penale).

Non è chiarissimo in questa fattispecie (ma pare di no) se il giudice dopo avere respinto la richiesta di patteggiamento abbia dichiarato la propria astensione ovvero si sia proceduto innanzi alla stesso giudice, valorizzando quella giurisprudenza secondo la quale il rigetto del patteggiamento per motivato dalla non accoglibilità della richiesta di sospensione condizionale della pena, non rende in giudice incompatibile alla celebrazione del processo (anche se mi sembra un giudizio di tale pregnanza come la negativa prognosi di non recidiva che quantomeno ragioni di opportunità, suggerirebbe di passare la mano).

Filippo Poggi

Legittimo impedimento del difensore e giudizio abbreviato in appello

In questa sentenza della VI Sezione Penale la cui motivazione è appena stata depositata, si afferma il principio di diritto (facendo perno su una interpretazione costituzionalmente orientata per cui non necessita una questione di legittimità costituzionale delle norme invocate) secondo il quale il difensore può fare valere il legittimo impedimento a comparire (ma direi non quello per concomitante impegno professionale) anche nel giudizio camerale (nella fattispecie abbreviato in appello in cui la sentenza di conferma che aveva disatteso la richiesta di rinvio è stata annullata). La necessità di disporre il rinvio dell’udienza era già stata affermata dalle Sezioni Unite con riferimento al difensore dell’imputato che aderisca ad una astensione dalle udienze regolarmente proclamata da una Istituzione o Associazione Forense.

Filippo Poggi

Falso in bilancio e rilevanza penale delle valutazioni

In allegato alla presente la nota di commento comparsa oggi su Il Sole 24 Ore del Maestro di tanti di noi Prof. Filippo Sgubbi in ordine ai disorientamenti giurisprudenziali della Cassazione in ordine al falso in bilancio “valutativo” dove l’Autore ricorda l’importanza della tassatività della norma specie nel caso di reati con elevate pene edittali (molto più severe di analoghe previsioni di altri paesi europei) oltre a svelare in contrasto più profondo tra il giudice fedele al testo della norma e quella giurisprudenza che opina per compiti di supplenza rispetto “alla produzione normativa di un legislatore improvvido“.

Filippo Poggi

La CEDU condanna l’Italia per il caso Abu Omar

Per fortuna, sarebbe il caso di dirlo, c’è sempre un giudice a Berlino (in questo caso Strasburgo) a riparare i torti della giustizia italiana. Ma questa volta, la condanna della CEDU fa seguito ad una coraggiosa azione giudiziaria promossa dalla Procura della Repubblica di Milano che ha portato alla condanna degli autori del crimine.

E veniamo ai fatti. Venuto in Italia nel 1998 e diventato imam nel 2000, Abu Omar ottiene l’asilo politico in Italia. Nel centro di Milano nel 2003 l’imam fu rapito e portato – come poi accertato – nella base americana di Aviano e poi in quella di Ramstein in Germania.

Gli autori del rapimento – individuati successivamente in agenti della Cia – con l’assistenza dei servizi segreti italiani – consegnarono il malcapitato nella mani dei servizi segreti egiziani, torturato a più riprese, per essere rilasciato solo nel 2004. La Procura di Milano aveva intanto aperto una indagine per sequestro di persona.

L’inchiesta per la quale bisogna dare atto ai magistrati di Milano di non aver ceduto alle pressioni del potere politico, che vedeva come indagati appunto agenti della Cia e del servizio segreto italiano, si è conclusa con una sentenza di condanna del Tribunale di Milano del 4.11.2009 che ha condannato 23 cittadini USA (22 agenti della Cia e il colonnello Romano) e 2 agenti italiani del Sismi, tenuti a versare un indennizzo alla vittima. Ma in appello la condanna contro i due agenti del SISMI è stata annullata perché era intervenuta la sentenza n. 106/2009 della Consulta in base alla quale i due agenti del Sismi non potevano essere interrogati perché non potevano divulgare fatti coperti dal segreto di Stato.

La sentenza della CEDU, depositata il 23.2.2016 ha accertato le violazioni della Carta di cui l’Italia si è resa responsabile e condannata la stessa per violazione dell’art. 3 (divieto di tortura e trattamenti disumani e degradanti), dell’art. 5 (diritto alla libertà e alla sicurezza), dell’art. 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare), dell’art. 13 (diritto alla tutela giurisdizionale effettiva) ma essa colpisce tutte le istituzioni statali, pesantemente richiamate in causa per le violazioni accertate e per la reticenza con cui hanno tentato di fermare la macchina giudiziaria e di coprire le responsabilità di agenti facenti parte dei servizi segreti. A partire dal Governo (e si tratta di ben quattro governi che si sono succeduti a partire da quello presieduto da Prodi, poi Berlusconi, poi Monti e Letta), accusati di aver abusato del segreto di Stato per favorire l’impunità dei responsabili, passando per la Corte Costituzionale, senza dimenticare il Presidente della Repubblica, allora Giorgio Napolitano, che concedeva la grazia ai due agenti della Cia condannati dai giudici italiani.

Senza dimenticare che il Governo – malgrado ne avesse il potere in base al Trattato di cooperazione giudiziaria esistente con gli USA – non ha mai richiesto l’estradizione degli agenti della Cia. Motivo per cui la Corte ha condannato l’Italia a versare ai due ricorrenti (Abu Omar e la moglie) 85 mila euro per i danni non patrimoniali e 30 mila euro per le spese giudiziarie.

Questo di Abu Omar è stato davvero un caso gravissimo che ha visto come la legalità sia stata tradita proprio dagli organi istituzionali, implicate le maggiori cariche dello Stato, stravolto ogni principio di giustizia. Grazie solo al coraggio dei giudici di Milano si è potuto far luce (e neppure tutta) su una vicenda così clamorosa.

Avremo modo di ritornare a discutere di questa vicenda cui dedicheremo un prossimo convegno nell’ambito della formazione professionale.

Marzo 2016

(commento a cura avv.to E. Oropallo)

Permesso di soggiorno anche per il partner dello stesso sesso

In un recente caso di cui si è occupato la Corte EDU (Pajic c/ Croazia) con sentenza del 23.2.2016 ha ribadito che il permesso di soggiorno per ricongiungimento familiare deve essere riconosciuto anche al partner dello stesso sesso per cui ha condannato la Croazia a risarcire il danno alla ricorrente cittadina bosniaca che si era vista rifiutare il visto di soggiorno da parte delle autorità croate per il ricongiungimento con la propria compagna che viveva appunto in Croazia.

La Corte ha condannato la Croazia sia per violazione del diritto al rispetto alla vita privata e familiare (art. 8) che del divieto di discriminazione (art. 14) rilevando che la nozione di famiglia include i legami di fatto e non solo quelli formalizzati dal matrimonio riconoscendo come la nozione di famiglia si sia notevolmente evoluta in questi ultimi anni sino a ricomprendervi tutte quelle situazioni di fatto che possono essere omologate alla famiglia tradizionalmente intesa, spazzando via quindi ogni diversa concezione basata su base religiosa. E questo mentre in Italia, dopo pressioni da parte dell’UE, il Parlamento ha votato una legge che prevede il riconoscimento sì delle coppie omosessuali ma lasciando aperto uno dei punti chiave, quello del diritto del partner a riconoscere il figlio dell’altro partner. Ci sarebbe da discutere molto su questo punto: qui vogliamo ribadire solo che il concetto di famiglia va storicizzato in quanto il concetto di famiglia, come formazione sociale oggi prevalentemente basata sul vincolo matrimoniale tra persone di sesso diverso, possa ritenersi immodificabile sul piano sociale per cui il diritto non può oggi che prendere atto delle nuove formazioni sociali che vanno sperimentandosi.

Marzo 2016

(Commento a cura avv. E. Oropallo)

Annullamento della sentenza di non luogo a procedere ed ammissibilità di riti alternativi

In questa recentissima ordinanza resa dal Gup di Forlì viene affrontata la tematica, abbastanza negletta anche in dottrina (un accenno abbastanza fugace si rinviene in AA.VV, Procedura Penale. Teoria e pratica del processo, Utet, 2015, vol. II, pagg. 1023-1024) , sulla natura del giudizio di rinvio dopo l’annullamento da parte della Cassazione di una sentenza di non luogo a procedere: la soluzione cui perviene il giudice forlivese è quella che debba essere celebrata una nuova udienza preliminare in cui si sviluppano tutte le fasi dalla costituzione delle parti alla produzione di documenti e verbali di investigazioni difensive fino alla discussione finale entro la quale la difesa può richiedere l’ammissione a riti alternativi quali il giudizio abbreviato o il patteggiamento (la tesi del pm che è stata respinta era quella secondo cui il giudice doveva rinnovare la sola fase del giudizio con l’emissione del decreto che dispone il giudizio ovvero una nuova sentenza di non luogo a procedere, restando preclusa ogni altra iniziativa di parte).

Filippo Poggi

Ricorso per cassazione inammissibile ed eventuale imputabilità delle spese e della sanzione pecuniaria al difensore

In questa ordinanza si è valutato di rimettere alle Sezioni Unite la questione di diritto circa la legittimazione ad impugnare del sostituto (cassazionista) del difensore (non cassazionista) e nel caso di inammissibilità se sia possibile condannare personalmente alle spese del giudizio e alla sanzione pecuniaria lo stesso difensore.

La questione era un pò intricata perché il difensore dell’imputato non cassazionista aveva nominato un sostituto ai sensi dell’art. 102 c.p.p. al solo fine di proporre ricorso per cassazione nell’interesse dell’indagato cui il Tribunale Distrettuale, su ricorso del pm ex art. 310 c.p.p. aveva applicato la misura della custodia in carcere.

La questione è opinabile e merita certamente approfondimento, ma quello che non deve sfuggire è che una decisione nel senso di condannare alle spese direttamente il difensore, sarebbe l’arma finale per realizzare la tanta auspicata e concretamente praticata riduzione della presentazione dei ricorsi e della presenza stessa degli avvocati in udienza (v. sez. un. sulla decisione in materia di misure cautelari reali in camera di consiglio non partecipata).

Nella motivazione si legge addirittura che possa dubitarsi dell’interesse a ricorrere per l’indagato e quindi per il difensore che avrebbe a sproposito attuato l’impugnazione, sol perché l’indagato straniero era stato espulso e si era reso irreperibile, trascurando il semplice fatto che quantomeno la presentazione del ricorso bloccava ai sensi dell’art. 310, comma 3 c.p.p. l’immediata esecuzione della misura (qualche volta di prende anche un latitante) nei confronti dell’indagato.

Ne vedremo delle belle. Ma i ricorsi li facciamo lo stesso.

Filippo Poggi

La legge Pinto sotto la lente della Consulta

La Corte Costituzionale è stata chiamata a pronunciarsi sulla questione di legittimità costituzionale dell’art. 2 c. 2 bis  e 2 ter della legge Pinto come aggiunto dall’art. 55 comma, lett. a) n. 2) del d. l. n. 83/12 convertito con modificazioni dall’art. 1, comma 1, della l. n. 134/2012, in riferimento agli artt. 3, comma 1, art. 111 comma 2 e 117 comma 1 Costituzione, in relazione all’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.

In effetti, la Consulta, come ipotizzato dal Giudice a quo che aveva sollevato eccezione di legittimità degli articoli richiamati, ha ritenuto fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 2 bis, nella parte in cui determina in tre anni la ragionevole durata del procedimento regolato dalla l. n. 89/2001 nel primo e unico grado di merito. Sulla scorta della giurisprudenza consolidata della Corte EDU la Consulta ha ribadito il principio di diritto secondo il quale lo Stato è tenuto a concludere il procedimento volto alla equa riparazione del danno da ritardo maturato, nel termine massimo di due anni, in conformità agli artt. 111 comma 2 e 117 comma 1 Cost..

In breve il giudizio ex lege Pinto in primo grado non potrà avere una durata superiore a due anni mentre la Corte ha ritenuto non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art 2, comma 2 bis, nella parte in cui determina in un anno la ragionevole durata del giudizio di legittimità previsto dalla l. n. 89/2001.

La sentenza della Corte Costituzionale (la n 36/2016 depositata il 19.2) segna un altro punto a favore del principio del giusto processo. Alla luce della esperienza di tutti i giorni, si dovrà fare i conti con i tempi delle Corti d’Appello che spesso appaiono inadeguate a gestire questo carico di lavoro, malgrado siano state istituite delle sezioni apposite per trattare i processi ex lege Pinto senza contare che il giudizio in Cassazione supera largamente i due anni.

Marzo 2016

(nota a cura avv. E. Oropallo)

Rimborsi spese e gettoni di presenza per i componenti del CNF

Con un regolamento adottato alla chetichella, il CNF si è auto assegnato, per la prima volta nella sua storia, compensi per l’attività istituzionale svolta che partono da un minimo di 50.000 euro per vicepresidente e tesoriere ad un massimo di 90 mila euro per il presidente, passando per i 70 mila del segretario. Somme che si aggiungono al rimborso spese.

Ai consiglieri “semplici” sono riconosciuti solo 650 euro per ogni seduta, sempre al netto delle spese rimborsate. Una novità che ci lascia davvero perplessi che va contro il principio della gratuità della funzione e del contenimento dei costi.

Un vero e proprio “cadeau” che ci getta ombre sull’operato dei componenti del Consiglio per cui l’OUA ne ha richiesto la sospensione in quanto adottato il provvedimento senza l’opportuno confronto con l’OUA e con i singoli Consigli degli Ordini e delle Associazioni maggiormente rappresentative. Grave precedente che potrebbe far da apripista anche a richieste analoghe da parte degli Ordini.

Crediamo che alla vicenda vada data la massima pubblicità in seno alla categoria perché si pervenga ad annullare questa delibera che contrasta con i principi di qualità e di trasparenza cui si è sempre ispirato fino ad oggi l’operato dei nostri organi rappresentativi.

Marzo 2016

(nota a cura avv. E. Oropallo)

Ennesima mini-riforma del processo civile

Abituato, ormai da decenni, il legislatore – o meglio dire il Governo – ad interventi-tampone, all’orizzonte si profila una nuova mini-riforma.

La Commissione Giustizia della Camera dei Deputati in data 16.2.2016 ha dato via libera al disegno di legge n. 2953. L’obiettivo è di rendere più celere il processo civile.                        Si prevede un allargamento delle competenze delle sezioni specializzate in materia d’impresa. Ancora una volta il Governo attuale punta ad un rafforzamento della struttura che si occupa della materia societaria quasi ad identificare una corsia di preferenza per le vicende legate alla vita economica.

Per il diritto di famiglia si prevede la creazione di sezioni specializzate sia presso le Corti d’Appello che presso i Tribunali dei Minorenni ai quali resterà la competenza in materia di minori stranieri non accompagnati. Insomma, una sorta di giustizia minore accompagnata da un contenimento delle richieste di indennizzo per irragionevole durata del procedimento. Obiettivo già in parte preceduto dalle recenti modifiche della legge Pinto già a rischio di incostituzionalità.

Ancora si parla di rafforzare l’istituto del tentativo di conciliazione del giudice ai sensi art. 158 bis c.p.c. senza chiedersi ovviamente perché questa facoltà riservata al Giudice ha avuto scarsa o nessuna applicazione da parte del Giudice.

Di luce ne vediamo ben poca in fondo al tunnel!….

Marzo 2016

(nota a cura Avv. E. Oropallo)

Processo in absentia – questione di legittimità costituzionale

In allegato la copia dell’ordinanza con cui il Tribunale di Forlì ha ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale del processo in absentia in cui l’imputata, senza fissa dimora, si era limitata ad eleggere il domicilio presso il difensore assegnatole di ufficio.

E’ possibile che ci sia modo di approfondire la questione nel prossimo incontro del 12 marzo a Bologna del corso di Diritto Penale Europeo.

Nel frattempo credo che questioni analoghe dovrebbero essere sollevata avanti tutti i giudici penali del nostro Tribunale, non è detto che non possano avere migliore fortuna, magari tenendo conto delle ragioni esposte in questa ordinanza, cui si possono opporre altre argomentazioni, specie di interpretazione convenzionalmente conforme.

Filippo Poggi