La prevalenza della VII penale

In Cassazione nell’ambito della materia penale per contenere o comunque gestire il numero dei ricorsi si sta affermando una prevalenza dello strumento alla settima sezione penale che dichiara inammissibile oltre il 99% dei ricorsi (vero che molti sono contro sentenze di patteggiamento quindi praticamente sempre manifestamente infondati), tuttavia mi pare anche alla luce di qualche esperienza personale di cui vi metto a parte, che anche ricorsi meno banali e talvolta anche abbastanza seri vengano risucchiati in un cono d’ombra in cui ogni questione giuridica viene disinvoltamente elusa, anche con le motivazioni più pretestuose e che poco avevano a che fare con i motivi di impugnazione.

In questo caso (Cass. sez. VII n. 33130/2016) la validità e regolarità dei decreti di irreperibilità, fondamentali per assicurare la conoscenza dell’imputato del suo processo, sono state riconosciute, superando ogni obiezione anche fondata su solidi dati di fatto e con l’aggiunta di qualche notazione non esattamente piacevole, quasi non si sapesse da parte della difesa che le ordinanze (come le sentenze) possono essere sottoscritte dal solo presidente-estensore: guardacaso però il decreto di irreperibilità era strutturato (dall’intestazione a seguire) in tutto e per tutto come un provvedimento monocratico né erano indicati i nomi dei giudici che avevano concorso alla decisione.

Neppure presa in considerazione la questione (nuova, quindi senz’altro ammissibile) del fatto di particolare tenuità.

Infine diamo i numeri: nel 2016 a tutt’oggi su 36.230 sentenze/ordinanze penali, ben 15.551 sono state emesse dalla VII sezione.

Se i progetti per risolvere i problemi della Cassazione (per cui il DL che trattiene in servizio il Primo Presidente e i Presidenti di sezione), vanno in questo senso, in cui la quantità dello “smaltimento” prevale sulla qualità dell’accertamento, ci sono ragioni di qualche perplessità.

Filippo Poggi

Perseguitato perché omosessuale: il richiedente asilo è credibile anche se non lo ha subito precisato

Lo ha affermato la Corte di Giustizia nella sentenza nella causa riunita da C-148/13 a C-150/13 del 2.12.2014. “Il richiedente asilo, a parere della Corte, non manca di credibilità per il solo fatto che, a causa della sua reticenza a rivelare aspetti intimi della propria vita, egli non abbia dichiarato immediatamente la propria omosessualità alla prima occasione concessagli per esporre i motivi di persecuzione” (Corte di Giustizia UE – Grande Sezione). Il ricorso alla Corte di Giustizia era stato promosso distintamente da tre cittadini di paesi extracomunitari che avevano presentato richiesta di asilo nei Paesi Bassi, adducendo il timore di essere perseguitati nei loro rispettivi paesi di origine a causa della loro omosessualità. Le loro richieste venivano respinte dalle autorità competenti con la motivazione che il loro orientamento sessuale non era dimostrato per cui i tre richiedenti avevano proposto appello avverso tali decisioni. Investito della controversia, il Consiglio di Stato olandese chiedeva pertanto alla Corte di Giustizia di chiarire gli eventuali limiti che potessero essere imposti dal diritto dell’UE con riferimento alla verifica dell’orientamento sessuale dei richiedenti asilo.

La Corte nella sentenza richiamata precisava che per valutare le dichiarazioni di un richiedente asilo occorre considerare le circostanze personali quali la sua estrazione sociale e l’orientamento sessuale.

Riteneva ancora che la circostanza che il richiedente asilo non risponda alle domande sull’orientamento sessuale non incide sulla sua credibilità ritenendo che i dettagli sulla pratiche sessuali del richiedente asilo sono contrari al rispetto della privacy. E’ contrario alla dignità umana il “test di omosessualità” per stabilire la omosessualità dei richiedenti perché sarebbe idoneo a ledere la dignità umana il cui rispetto è garantito dalla Carta.

Fonte D&G

Nota a cura avv. Oropallo

Agosto 2016   

La CEDU garantisce il diritto di cambiare il sesso

La normativa interna che vieta il cambiamento di sesso perché sussiste ancora la capacità di procreare è contraria all’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo che assicura il diritto al rispetto della vita privata e personale.

E’ il principio fissato dalla Corte di Strasburgo nella sentenza Y.Y. c/ Turquie depositato il 20.3.2015 (ricorso n. 14793/08). La Corte europea riconosceva il diritto di una cittadina turca al cambiamento di sesso e di avvalersi pienamente dello sviluppo delle propria personalità.

La legge turca, nel caso di specie, scrive la Corte, ammette il cambiamento di sesso ma lo condiziona al fatto che sussista un’incapacità definitiva di procreare. Secondo Strasburgo, un individuo ha la libertà di definire la propria appartenenza sessuale, tenendo conto che detta liberà fa parte del diritto all’autodeterminazione ricordando che anche i Tribunali turchi nel 2013, adeguandosi alla Convenzione, avevano già cambiato orientamento non richiedendo più l’esistenza dell’incapacità di procreare.

Fonte www.marinacastellaneta.it

Nota a cura avv. Oropallo

Agosto 2016

Non può essere arrestato lo straniero per reingresso irregolare

Il reingresso irregolare di un cittadino straniero espulso in precedenza dall’Italia non può essere punito con la reclusione. Lo ha chiarito l’Avvocato generale della Corte di Giustizia UE nelle conclusioni depositate il 28.4.2014 nella causa C-290/14 del 20.05.2014 con le quali è stato assestato un ulteriore colpo alla normativa italiana che continua a presentare contrasti con la direttiva 2008/115 sulle norme e procedure comuni applicabili agli Stati membri al rimpatrio di cittadini di Paesi terzi il cui soggiorno è irregolare. Il caso sollevato dinanzi alla CdG è partito dal rinvio pregiudiziale del Tribunale di Firenze chiamato a decidere sulla vicenda di un cittadino albanese che, espulso nel 2012, era rientrato in Italia nel 2014. L’uomo era stato arrestato per violazione del Dlgs n. 286/98 per il reato di reingresso clandestino. Ad avviso dell’Avvocato generale, che ha così respinto la posizione del Governo italiano, la misura della detenzione è in contrasto con la normativa UE perché impedisce la realizzazione dell’obiettivo principale che è quello di far cessare il soggiorno irregolare e non punire i casi di ingresso irregolare per cui la detenzione finisce per bloccare la realizzazione di questo obiettivo.

Va poi ricordato che la direttiva 2008/115 non prevede la reclusione come sanzione penale per il soggiorno irregolare per cui ammettere la reclusione per motivi diversi da quelli disposti nella direttiva, finisce per essere una inammissibile sospensione unilaterale della applicazione della direttiva.

Fonte www.marinacastellaneta.it

Nota a cura avv. Oropallo

Agosto 2016

Il continuo rinnovo dei contratti a tempo determinato nel settore della scuola è contrario al diritto comunitario

Lo ha affermato la Corte di Giustizia UE, 3°Sez., nella sentenza nelle cause riunite C-22/13, da C-61/13 a C-63/13 e C-418/13 del 26.11.2014 precisando che “l’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato non ammette una normativa che, in attesa dell’espletamento dei concorsi per l’assunzione di personale di ruolo, autorizzi il rinnovo dei contratti a tempo determinato per la copertura di posti vacanti, senza indicare tempi certi per l’espletamento dei concorsi ed escludendo il risarcimento del danno subito a causa di un tale abusivo rinnovo”.

La sentenza è stata sollecitata da una richiesta pervenuta dalla Corte Costituzionale nonché dal Tribunale di Napoli che chiedevano di sapere se la normativa italiana fosse conforme all’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato e, in particolare, se quest’ultimo consentisse il rinnovo di contratti di lavoro a tempo determinato per la copertura di posti vacanti e disponibili, in attesa dell’espletamento delle procedure concorsuali per l’assunzione di personale di ruolo nelle scuole statali. La Corte ha ritenuto che tale pratica costituisse in effetti un abuso criticando la legge italiana che non fa nulla per prevenire il ricorso abusivo ad una successione di contratti a tempo determinato e che non consente neanche la trasformazione di tali contratti in contratti a tempo indeterminato per cui – scrive la Corte – l’Italia è obbligata a prevedere una misura adeguata per sanzionare il ricorso abusivo a questa pratica diffusa in numerosi comparti dell’impiego pubblico.

Fonte D&G

Nota a cura avv. Oropallo

Agosto 2016

Non accettazione della elezione del domicilio da parte del difensore di ufficio

Una sentenza molto deludente (sopratutto per me) della V Sezione Penale appena depositata lo scorso 15/07/2016 che elude la gran parte delle problematiche sollevate con l’atto di impugnazione.

In buona sostanza, liberissimo il difensore di ufficio di non accettare la elezione del domicilio presso il proprio studio, si procederà con le notifiche nel medesimo luogo cambiando l’etichetta con quella (vetusta e usurata adesso col processo in assenza, in cui le questioni sono analoghe, considerato il sostanziale rifiuto della giurisprudenza di considerare la conoscenza legale del processo per il solo fatto di una insignificante elezione o dichiarazione del domicilio) dell’art. 161, comma 4 c.p.p.

I giudici del Tribunale di Forlì (Ufficio Gup in particolare) hanno fatto una non corretta applicazione delle norme, richiamando l’art. 157, comma 8-bis in un caso di difesa di ufficio, eppure per la Cassazione gli effetti sono salvi perché pur motivando male, si sarebbe giunti alle stesse conclusioni col ragionamento giuridicamente corretto.

Occorre riprovarci sempre, fino ad ottenere il mutamento di questa giurisprudenza prigra (che celebra processi inutili senza imputati e con difensori che non possono fare granché senza il contatto con l’assistito), magari con forze nuove e più motivate (io sono un pò stufo di battere la testa nel muro, ma non ancora (con)vinto dalla lettura di certe argomentazioni un poco bizzarre e non certo costituzionalmente o convenzionalmente, come va di moda dire adesso, orientate).

Ci siamo portati a caso solo un contentino di prescrizione, il coraggio di dichiarare il ricorso manifestante infondato non l’hanno avuto …

Un caro saluto e buone vacanze a tutti,

Filippo Poggi

Il principio di diritto per cui nel dibattimento

In questa ineccepibile sentenza della VI sezione penale della Suprema Corte si afferma il principio di diritto per cui nel dibattimento (a differenza della fase dell’udienza preliminare) a fronte della eccezione di nullità per indeterminatezza dell’imputazione, il giudice non ha alcun onere di invitare il pm a meglio precisare l’addebito prima di dichiarare (anche ex officio) la nullità del decreto che dispone il giudizio (l’imputazione è cristallizzata e definita con il decreto che dispone il giudizio, salve le modifiche ai sensi degli art. 516 e 517 c.p.p. che si rendano necessarie in seguito agli accadimenti istruttori) .

Filippo Poggi

Esecuzione di mandato d’arresto europeo

La Corte di Cassazione – VI Sez. Pen. – con la pronunzia n. 23277/16 del 3.6.2016 ha bloccato l’esecuzione di un mandato d’arresto europeo emesso dalla Romania a causa delle condizioni disumane e degradanti delle carceri dello Stato richiedente e per la mancata verifica da parte della Corte d’Appello che aveva dato il via libera alla consegna. La vicenda riguarda il caso di un cittadino rumeno condannato nel suo paese per traffico di stupefacenti. Rileva la Cassazione che la Corte di Giustizia dell’UE con sentenza del 5.4.2016 (C – 404/15) ha previsto che non può essere eseguito un MAE nel caso in cui vi siano “seri indizi” circa la violazione dei diritti fondamentali e dei principi giuridici generali sanciti dall’art. 6 del Trattato UE da parte dello Stato di emissione in riferimento alle condizioni di detenzione. Si tratta di un’ipotesi non prevista dal legislatore UE nella decisione quadro 2002/584 sul MAE e la procedura di consegna tra Stati membri, recepita in Italia con la legge n. 69/2005. Ma sia la CdG che la Cassazione hanno richiamato nella loro valutazione sia le pronunce della Corte EDU che ha condannato la Romania per il sovraffollamento delle carceri nonché i rapporti del Comitato contro la tortura che hanno accertato le pessime condizioni dei reclusi nelle carceri rumene. La Cassazione si è riportata nella sua valutazione anche a uno dei principi di cui si fa cenno nella legge europea che prevede la sospensione dell’esecuzione se sussiste una grave e persistente violazione da parte dello Stato emittente dei principi sanciti dall’art. 6 TUE. Prima di procedere alla consegna, le autorità italiane devono accertare se non sussiste tale violazione per cui sulla base delle informazioni fornite non può essere escluso il rischio concreto di trattamento disumano e degradante di modo che l’esecuzione del mandato di arresto deve essere rinviata fino a quando non sia accertata la situazione reale che nel caso specifico è mancata per cui è stata annullata la decisione della consegna.

Riteniamo che la sentenza sia apprezzabile sotto il profilo delle garanzie previste dalla legge europea: in effetti, lo Stato richiesto della consegna non può limitarsi ad osservare una posizione passiva ma assicurarsi che siano fatte salve tutte le garanzie per il soggetto di cui si chiede la consegna. Ancora, va ricordato che per lo stesso motivo la Corte EDU ha sanzionato lo Stato Italiano per violazione dell’art. 3 della CEDU, costringendo da una parte l’Italia a migliorare le condizioni dei detenuti nelle prigioni italiane e dall’altra (si tratta della famosa sentenza Torreggiani e altri) a riparare il toro subito dai detenuti.

Per finire, ricordiamo che un Tribunale tedesco recentemente ha rifiutato la consegna di un detenuto richiesta dall’Italia proprio sulla scorta di quella sentenza di condanna subita dall’Italia che denunciava la totale inadeguatezza degli spazi di cui può disporre il detenuto.

Fonte (www.marinacastellaneta.it)  

Nota a cura avv. E. Oropallo

La ricombinazione genica della legalità penale: su Taricco, Varvara ed altre mine vaganti

Mi sembra un articolo lucido, ben scritto, che mette veramente a fuoco i problemi e lo stato dell’arte dei rapporti tra il diritto interno, quello eurounitario e quello convenzionale Cedu (oltre ai “dialoghi”? tra le Corti), facendo rimpiangere (almeno a me) una maggiore sovranità nazionale in materia penale (soprattutto processuale).

Filippo Poggi

La Turchia e l’obbligo di garantire la libertà di culto

Con recente sentenza della Corte EDU depositata il 24.5 u.s. la Turchia è stata condannata per violazione dell’art. 9 della Convenzione che assicura la libertà di religione. La Corte di Strasburgo ha chiarito che una norma amministrativa in materia urbanistica non può limitare il diritto degli appartenenti ad una fede religiosa, impedendo loro di costruire un edificio nel quale esercitare il proprio credo religioso. La sentenza è conseguente ad un ricorso presentato dalla Congregazione dei Testimoni di Geova che in un primo momento erano stati autorizzati a celebrare il proprio culto in un appartamento privato. In base ad una legge nazionale, le autorità turche avevano poi impedito che tali funzioni potessero essere svolte in un appartamento privato ma contemporaneamente avevano rigettato la richiesta formulata dai credenti di costruire un edificio per esercitare la loro fede. La Corte ha ritenuto che anche la mancanza di un luogo di culto per celebrare regolarmente il proprio credo è una limitazione del diritto di esercizio della propria fede, riaffermando, dunque, il principio che il diritto di libertà religiosa va tutelato in ogni momento in cui si ponga un ostacolo al loro libero esercizio. Purtroppo in Europa ci sono ancora Stati, come in Italia, dove i Comuni facendo riferimento a presunti limiti urbanistici si rifiutano di concedere l’autorizzazione alla costruzione di luoghi di culto. E questo in particolare per i mussulmani spesso costretti ad esercitare le loro funzioni religiose in luoghi non idonei o addirittura all’aperto con grave discriminazione anche in confronto ad altre fedi religiose.

Giugno 2016

Fonte (www.marinacastellaneta.it)

Nota a cura Avv. E. Oropallo

Rinvio pregiudiziale alla CdG obbligatorio in caso di dubbio

Con sentenza del 5.4.2016 relativa alla causa C – 689/13 la Corte di Giustizia dell’UE ha ribadito che – in caso di dubbi interpretativi o applicativi della normativa UE – i giudici nazionali hanno il dovere di proporre rinvio pregiudiziale alla Corte stessa.

Il principio è stato ribadito dalla CdG che ha esaminato un ricorso pregiudiziale promosso dal Consiglio di Giustizia amministrativa per la Regione siciliana che aveva chiesto alla Corte UE di chiarire se sia ammissibile che una norma interna impedisca ad una sezione di un organo giurisdizionale di ultima istanza di rivolgersi alla Corte europea.

Ipotesi bocciata dalla Corte perché il diritto interno “non può impedire ad un organo giurisdizionale nazionale di avvalersi del rinvio pregiudiziale”. Ricordiamo che il rinvio pregiudiziale alla Corte serve per eliminare ogni dubbio in caso di contrasto tra norma interna e norma europea o sussista dubbio sulla corretta interpretazione della norma UE di cui la Corte è interprete autentico.

D’altra parte – rileva la Corte – gli organi giurisdizionali nazionali sono obbligati ad applicare immediatamente il diritto dell’Unione in modo conforme alla giurisprudenza della Corte e disapplicare di propria iniziativa le norme contrarie senza attendere che il potere legislativo provveda a rimuovere la norma interna di contenuto difforme rispetto alla norma europea.

Giugno 2016

Fonte: www.marinacastellaneta.it

(Nota a cura Avv. E. Oropallo)

La riforma della magistratura onoraria

Sulla G.U. n. 99 del 29.4.2016 n. 57 è stata pubblicata la l. n. 57/16 del 28.4.2016 “contenente delega al Governo per la riforma organica della magistratura onoraria e altre disposizioni sui giudici di pace”.

Innanzitutto, non vediamo le ragioni di questa delega: trattandosi di una legge di riforma della magistratura onoraria – che tanta parte ha nell’organizzazione della giustizia in Italia – sembrava corretto arrivare ad una legge che fosse condivisa da tutti i gruppi parlamentari, all’esito di un confronto democratico su una legge che dovrebbe costituire un pilastro nella riforma della giustizia. Ma ormai il governo in Italia, frutto di compromessi e più spesso espressione di consorterie di potere, non riesce più a concepire quale sia il rispetto dei poteri costituzionalmente garantiti. E così spesso il passaggio in Parlamento per l’approvazione di una legge si è trasformato in una passerella di belle donne e arena di scontri fumosi e roboanti ma senza alcuna chiarezza politica. Motivo per cui, appena entrata in vigore la legge, i Giudici di Pace hanno incrociato le braccia dal 6 all’11 giugno. L’atto di proclamazione dello sciopero è un atto di accusa contro la scelta governativa lamentando i vertici della categoria che “la legge delega di riforma della magistratura cd. onoraria va esattamente nella direzione opposta da quanto promesso negli incontri di mera facciata, avuti negli ultimi due anni”. L’associazione dei magistrati onorari accusa il Governo di aver fatto ricorso ancora una volta a scelte non condivise dall’associazione in un clima di dichiarata ambiguità rimproverando al Governo – in violazione del principio comunitario di non discriminazione – di aver posto tutti gli oneri contributivi a loro carico, di confermare una delega in bianco nella determinazione dei compensi dei magistrati di pace e onorari e di aver affidato il coordinamento dell’attività dei Giudici di pace al Presidente del Tribunale.                     Un sistema di controllo non gradito ma, a nostro avviso, efficace se effettivamente funzionasse anche perché la preparazione dei magistrati onorari, spesso privi di precedenti esperienze giudiziarie, è carente sotto il profilo professionale e criticabile sotto il profilo dell’affidamento. Sarebbe stato opportuno destinare un fondo speciale per coprire le spese di formazione e aggiornamento soprattutto dei giovani che chiederanno di coprire questi incarichi. E non saranno pochi, visto che è sempre più raro per i giovani avviare ex novo un’attività professionale che richieda una preparazione adeguata e la disponibilità di discrete risorse finanziarie. I problemi di fondo restano anche perché si vorrebbe una riforma ma senza spese e ciò non farà che abbassare da una parte la professionalità di chi opera questa scelta e dall’altra rendere un servizio agi utenti sempre più scadente. Per semplificare, avremo un sistema giudiziario che destinerà poche risorse alla magistratura onoraria andando a rafforzare quei settori – come quello societario – nei quali è necessario assicurare rapidità nelle decisioni, come richiede da tempo l’imprenditoria italiana.

Nei prossimi mesi, avremo modo di valutare più ampiamente gli effetti di questa ennesima manovra nella scia del folto elenco delle mini-riforme, sempre in corso revisione, che affossano ogni prospettiva di certezza del diritto.

Giugno 2016

Nota a cura avv. Oropallo

Esegesi dell’art. 64, comma 3 c.p.p. – Statistica sull’esito dei ricorsi per cassazione nella materia penale

In questa interessante sentenza della Prima Sezione Penale si passano in rassegna le conseguenze dei mancati avvisi (variamente combinati) ex art. 64, comma 3 c.p.p. (in questo caso il ricorso della difesa è stato rigettato).

Va detto, su altro versante, che da una osservazione senza alcuna pretesa di scientificità ma comunque abbastanza accurata, risulta che per l’anno 2015 sono stati presentati 78 ricorsi avverso provvedimenti del Tribunale di Forlì (Ufficio GIP compreso) o comunque decisi in primo grado dal tribunale forlivese: ebbene di questi 43 sono stati mandati alla Settima Sezione Penale con l’inevitabile conclusione della dichiarazione di inammissibilità. Una percentuale del 55% che però deve essere oggetto di interpretazioni non superficiali in quanto spesso (consapevolmente) viene proposto un ricorso inammissibile per finalità che possono giovare, e anche molto, all’assistito.

Tuttavia il sempre maggiore tecnicismo del ricorso penale per cassazione e la chiusura estrema della Corte a dichiarare la prescrizione intervenuta dopo il giudizio di appello (cfr. la pronuncia appena emessa a Sezioni Unite 27.05.2016 n. 39909 in tema di prescrizione in relazione ai diversi capi della sentenza) inducono ad auspicare una sempre maggiore formazione di noi avvocati, visto che il giudizio di cassazione sembra diventare quasi una branca specialistica del diritto penale.

Filippo Poggi

Il Gup può pronunciare sentenza di nlp ex art. 131-bis del codice penale

In questa sentenza appena depositata della Quinta Sezione Penale si afferma che anche il Gup può sempre prosciogliere applicando la speciale causa di non punibilità ex art. 131-bis del codice penale, sulla base del dato testuale dell’art. 425 c.p.p. per cui all’esito dell’udienza preliminare il giudice può pronunciare sentenza di non luogo a procedere quando si tratti “di persona non punibile per qualsiasi causa”, attesa la superfluità del dibattimento.

In tal caso l’imputato prosciolto con la predetta formula conserva il diritto di proporre ricorso per cassazione, avverso una formula di proscioglimento che presuppone la sua penale responsabilità.

Filippo Poggi

Riconoscimento reciproco delle sanzioni pecuniarie tra gli stati membri dell’UE

 

Con decreto legislativo n. 37 del 16.2.2016 – entrato in vigore il 27 marzo – è stata recepita la decisione quadro 2005/214/GAI del 24 febbraio 2005 relativa al principio del reciproco riconoscimento delle sanzioni pecuniarie. Meccanismo che consentirà all’Italia di riscuotere le sanzioni pecuniarie comminate a seguito di una sentenza penale definitiva, con esclusione di sanzioni maturate in ambito civile. Il testo disciplina anche la procedura attiva e quella passiva individuando le autorità nazionali competenti. Nel caso di sentenza resa in Italia, è competente l’Ufficio del PM presso il Tribunale che ha emesso la decisione a trasmetterla allo Stato membro ove risiede o dimora abitualmente la persona condannata o, se si tratta di persona giuridica, ove essa ha sede. Per quanto concerne l’Italia come Stato di esecuzione, la competenza è affidata alla Corte d’Appello nel cui distretto la persona condannata dispone di beni o di un reddito o dove risiede o dimora abitualmente o, se persona giuridica, dove ha sede legale. Spetta al Procuratore generale presso la Corte d’Appello a chiedere il risarcimento allo stesso organo giurisdizionale che procede in Camera di Consiglio. La decisione deve essere adottata entro 20 giorni dalla data di ricevimento della decisione, con una possibile proroga di 30 giorni, previa comunicazione all’autorità dello Stato di emissione.

Maggio 2016

Fonte: www. marinacastellaneta.it

(Nota a cura avv. E. Oropallo)

No all’estradizione nell’interesse superiore del minore

 

Lo ha stabilito la Corte di Cassazione – 6° sez. penale – con sentenza n. 13440/16 depositata il 4 aprile – che ha ribaltato la sentenza della Corte d’Appello di Firenze che aveva disposto l’estradizione in Moldavia di una donna accusata di tratta di esseri umani. Dopo aver respinto il motivo di ricorso della donna sull’astratta possibilità di trattamenti disumani in carcere, ritenuti contrari agli standard stabiliti dalla CEDU, la Corte ha altresì rigettato l’altro motivo posto a base del ricorso basato sull’impossibilità di procedere all’estradizione in ragione del fatto che, contestualmente, tale reato era stato commesso in Italia, richiamando la Convenzione europea di estradizione – cui aderiscono entrambi gli Stati – che prevede la facoltà, ma non l’obbligo, della estradizione. Ha ritenuto, invece, accoglibile il ricorso nella parte in cui la Corte d’Appello non aveva tenuto conto del trattamento previsto per le detenute madri. Tanto più che la legge n. 69/2005 – per quanto non applicabile nel caso in esame – prevede addirittura il divieto di consegna della madre con prole convivente di età inferiore ai tre anni, situazione nella quale si trovava la ricorrente, facendo valere dunque il principio dell’interesse superiore del minore.

Maggio 2016

Fonte: www.marinacastellaneta.it

(Nota a cura avv. E. Oropallo)

Truffa e richiesta di compenso al cliente ammesso al gratuito patrocinio

In questa sentenza appena depositata della Seconda Sezione Penale si afferma il principio di indubbia esattezza secondo il quale costituisce il reato di truffa il comportamento del legale che richieda (ed ottenga) un compenso dal cliente ammesso al patrocinio a spese dello Stato (in questo caso nell’ambito di un giudizio civile).

Va detto per completezza che il collega nel corso del giudizio di appello ha rinunciato alla prescrizione.

Filippo Poggi