Elezione di domicilio presso il difensore di ufficio e processo in absentia

In allegato la recentissima sentenza della Corte Costituzionale n. 31/2017 che ha dichiarato inammissibile la questione di costituzionalità sollevata dal Tribunale di Asti in relazione alla possibilità di procedere in assenza dell’imputato quando questi abbia solamente eletto il domicilio presso il difensore designato di ufficio.

La questione di grande rilevanza pratica e che tocca un punto fondamentale del processo accusatorio, va detto subito, è stato dichiarata inammissibile e non infondata nel merito. Restano quindi spazi operativi per giudici e avvocati per sollevare nuovamente la questione di costituzionalità.

La Corte Costituzionale ha rilevato giustamente che l’ordinanza del Tribunale di Asti (che pure era riccamente motivata) aveva individuato in maniera non corretta le norme sospettate di illegittimità costituzionale negli artt. 161 e 163 c.p.p. mentre semmai si sarebbe dovuto impugnare il combinato disposto dall’art. 420-bis, comma 2, 161 e 163 c.p.p. nella parte in cui consentono di procedere in assenza sulla sola base di una elezione o dichiarazione del domicilio.

La Consulta ha poi rilevato che il giudice remittente non aveva specificato se nel caso concreto, al di là della designazione di ufficio, il difensore era in qualche modo riuscito ad instaurare un rapporto professionale con l’imputato, informazioni ritenute necessarie ai fini della ammissibilità della questione di costituzionalità.

Infine la Corte ha rammentato che la giurisprudenza sovranazionale ed in particolare quella della Corte Edu non prescrive una notifica personale all’imputato ma deve essere certamente assicurato che la sua non partecipazione al giudizio è frutto di una scelta consapevole e volontaria.

La parte meno condivisibile della motivazione è quella in cui la Corte pare non ammettere la possibilità di una pronuncia additiva che “manipoli” la norma al fine di espungere tra i casi in cui è possibile procedere in assenza, quello in cui risulta la mera elezione di domicilio presso il difensore di ufficio.

Ci sono molti spazi per censurare la norma ed altrettanti per sostenere che nei casi concreti l’assenza dell’imputato non è frutto di una scelta consapevole, ciò anche al fine di garantire la possibilità dello stesso di presenziare al giudizio, spesso resa impossibile da discutibili prassi di polizia di fronte alle quali occorre reagire con ogni mezzo offerto dell’ordinamento.

Resto sempre più convinto che il processo in absentia abbia sottratto garanzie all’imputato rispetto al giudizio in contumacia per come si era configurato a seguito di modifiche normative ed interpretazioni giurisprudenziale, liquidate con l’entrata in vigore della Legge n. 67/2014.

Filippo Poggi

Notifica alla persona offesa delle richieste in tema cautelare

In questa sentenza recentissima della Seconda Sezione Penale, viene espresso un principio di diritto di indubbia esattezza: in caso di richiesta di modifica della misura cautelare, la predetta richiesta va notificata ai sensi dell’art. 299, comma 3 c.p.p. alla persona offesa ovvero al suo difensore se nominati ai sensi dell’art. 101 c.p.p. e tale onere è previsto a pena di inammissibilità della richiesta di revoca o sostituzione della misura cautelare personale coercitiva.

La Cassazione ha stabilito che tale notifica può essere senz’altro effettuata, se la persona offesa ha nominato un difensore, a mezzo PEC da parte del difensore dell’imputato, richiamando giustamente le norme di cui all’art. 152 c.p.p. e 48 del codice dell’amministrazione digitale.

Non si vede infatti perché se il codice di rito autorizza il difensore alle notificazione a mezzo raccomandata a/r non possa notificare anche mediante PEC che offre non minori garanzie quanto all’invio e alla ricezione dell’atto.

Se ne deve dedurre che dovrebbe essere senz’altro ammissibile anche la notifica via PEC alla persona offesa che non abbia un difensore ma sia munita di un indirizzo PEC.

Non è affrontato nella motivazione, il che lascia perplessi ed anche un poco preoccupati, il fatto che nel caso in esame il Tribunale del Riesame avesse dichiarato inammissibile l’appello ex art. 310 c.p.p. non previamente notificato alla parte lesa. Non sembra che questo onere sia imposto dalla norma dell’art. 299, commi 3 e 4-bis c.p.p. che impone la notifica solo della richiesta presentata al GIP (o al giudice che procede) fuori udienza, ma non delle impugnazione avverso il suo provvedimento di rigetto. Certamente non dovrebbe essere neppure pensabile nel caso di riesame ex art. 309 c.p.p. stante i tempi brevissimi della procedura previsti a pena di perdita di efficacia della misura.

Filippo Poggi

Rassegna della giurisprudenza penale della Cassazione 2016

In allegato un importantissimo strumento di lavoro come la Rassegna Penale della Cassazione per l’anno 2016 a cura dell’Ufficio del Massimario e del Ruolo.

Tra l’altro l’opera è ottimamente divisa in capitoli ciascuno a cura di una magistrato dell’Ufficio il che sembra assicurare una omogeneità di trattazione che facilita la consultazione.

In un primissimo e superficiale esame, segnalo la sezione che concerne le notificazioni, materia ostica ma che può sempre dare soddisfazioni ai difensori (tra l’altro però anche materia di fondamentale importanza ai fini della effettiva conoscenza del processo da parte dell’imputato, essenziale in un rito accusatorio in cui ampie sono le facoltà di auto-difesa che si integrano con la difesa tecnica).

Filippo Poggi

Intervento del Presidente Giovanni Canzio

In allegato l’interessante quanto brillante intervento del Primo Presidente Giovanni Canzio all’Inaugurazione dell’Anno Giudiziario.

Il discorso è solo una parte della lunga e dettagliata relazione (176 pagg.) reperibile sul sito Internet della Cassazione.

Va anche detto, che diversamente da quanto riportato da alcuni organi di stampa, il Presidente Canzio non ha mai detto (v. pag. 6) che dopo la condanna in primo grado il decorso della prescrizione dovrebbe essere sospeso sine die (una affermazione impossibile per un giurista della sua finezza e del suo concreto garantismo) ma solo e giustamente che dopo la condanna di primo grado i giudizi di impugnazione devono essere celeri per impedire la prescrizione (come pare riescano a fare in Cassazione dove i procedimenti penali vengono mediamente definiti in otto mesi ed il tasso di sentenze che dichiarano il reato prescritto si attesta sull’1,3%).

Filippo Poggi

Provvedimenti sui minori con doppia cittadinanza

Recentemente con sentenza n. 1310 del 19.1.2017 a Sezioni Unite la Corte di Cassazione ha stabilito che i provvedimenti in materia di minori con doppia cittadinanza non rientrano nel campo di applicazione dell’art. 4 della Convenzione dell’Aja che stabilisce la prevalenza delle misure adottate dal Giudice dello Stato di cui il minore è cittadino su quelle adottate nel luogo di residenza abituale, dovendosi ritenere che il luogo di residenza abituale presenti col minore il collegamento più stretto.

Il criterio cui si ispira questa soluzione fa riferimento all’art. 42 l. n. 218/1995 che appunto richiama la Convenzione dell’Aja che all’art. 1° dispone la competenza della autorità di residenza abituale del minore sulle misure tendenti alla protezione della sua persona o dei suoi beni. Considerato che la Corte di merito, con accertamento adeguatamente motivato, aveva individuato in Italia la residenza abituale del minore al momento della domanda, correttamente è stata ritenuta sussistente la giurisdizione italiana. Sentenza che privilegia il criterio del luogo di residenza abituale su quello della cittadinanza che può essere considerato come un dato puramente formale che deve cedere il passo, come dispone la Convenzione dell’Aja che si occupa tra l’altro dei casi di sottrazione dei minori – come era il caso di specie –, al principio della residenza abituale in quanto opportunamente il Giudice, dove trovasi abitualmente il minore, può decidere in base a dati che sono acquisiti direttamente dal giudicante.

Gennaio 2017

Fonte D & G 20.1.2017

Nota a cura avv. E. Oropallo

La partecipazione a corsi di nuoto misti non viola l’Art. 9 CEDU

 

Lo stabilisce una recente sentenza della Corte EDU che ha respinto il ricorso di una coppia mussulmana che era stata multata per aver vietato alle figlie in Svizzera di frequentare corsi scolastici obbligatori di nuoto misti perché contrari ai loro precetti religiosi, escludendo che vi fosse stata – come sostenevano i ricorrenti – una  violazione dell’art. 9 CEDU. L’integrazione sociale degli alunni provenienti da diverse culture e di diversa fede religiosa, ha ritenuto la Corte, è un diritto fondamentale ed un interesse pubblico prevalente sulle opposte convinzioni religiose e filosofiche dei loro genitori. Anche a tener conto del fatto che l’interferenza era minimizzata da alcune misure come il permesso di indossare il burkini, come quella di tenere distinti gli spogliatoi e separate le docce per bambini e bambine. Sentenza depositata il 10.1.2017 nel ricorso n. 29086/12.

Non si possono escludere, ritiene la Corte, dai programmi scolastici pratiche tollerate dalla società al di fuori della scuola, solo perché in contrasto con le credenze religiose. Lo sport unisce e non viola le diverse convinzioni altrui”.

Pur nel rispetto della diversità non può ritenersi dunque violato l’art. 9 della Cedu che garantisce la libertà di religione in quanto, deve essere la minoranza ad adattarsi agli usi e costumi della maggioranza né si può pretendere di “piegare” le abitudini e le tradizioni locali agli interessi di gruppi minoritari.

L’insegnamento dello sport, come il nuoto, non è volto solo all’attività fisica degli alunni e a migliorare il loro sviluppo ma soprattutto, dovendosi svolgere in gruppi, migliora e favorisce la loro socializzazione. Si può aggiungere che, se potesse ritenersi per assurdo legittima la decisione dei genitori, ad essere discriminati in questo caso sarebbero proprio i minori ai quali viene negata la possibilità di confronto e di una maggiore integrazione nel corpo sociale dello Stato di accoglienza. Corretta, dunque, la decisione delle autorità pubbliche svizzere di far prevalere l’interesse superiore dei minori per migliorare la loro integrazione sociale sulla volontà dei genitori di richiedere l’esonero senza che si possa parlare di interferenza arbitraria e contraria all’art. 9 CEDU.

Gennaio 2017

Fonte D & G 10.1.2017

Nota a cura avv. E. Oropallo

Modalità di calcolo dello spazio minimo in carcere

Vista la persistente tendenza delle Corti d’Appello di non adeguarsi ai parametri indicati dalla Corte EDU, ancora una volta la Corte di Cassazione (I° Sez. Pen. sent. n. 52819/16) depositato il 13.12 u.s., è dovuta intervenire per chiarire quale sia il corretto calcolo dello spazio da destinare al detenuto per non incorrere in una violazione dell’art. 3 della Convenzione europea che vieta la tortura e i trattamenti inumani e degradanti.

Nel caso di specie il Tribunale di Sorveglianza di Perugia aveva respinto il reclamo di un detenuto che contestava le condizioni carcerarie provocate dal sovraffollamento.

Il Tribunale aveva ritenuto che nel calcolo dello spazio minimo destinato al singolo occupante andava incluso il letto. Inoltre, il Tribunale compensava la carenza di acqua calda in cella con la doccia esterna con acqua calda. Una decisione bocciata dalla Cassazione che ha escluso ogni possibilità di compensazione, chiarendo altresì che – secondo la interpretazione della Corte EDU il letto deve essere considerato come un “ingombro idoneo a restringere” lo spazio utile minimo all’interno della cella senza possibilità di compensare le carenze interne della cella con la residua offerta di servizi o di spazi esterni alla cella. Di qui l’annullamento del provvedimento del Tribunale di Sorveglianza con rinvio per un nuovo calcolo dello spazio minimo.
A partire dal caso Torregiani ricordiamo che la Corte EDU ha condannato l’Italia per violazione dell’art. 3 della Convenzione ritenendo che le condizioni della cella a disposizione del recluso non potesse essere inferiore a 3 m per 4.  Il Governo italiano era corso ai ripari per evitare il pagamento di pesanti sanzioni pecuniarie senza però intervenire sulle strutture esistenti, se non in minima parte, per carenza di fondi destinati all’edilizia carceraria per cui il problema del sovraffollamento è divenuto un problema strutturale che riproduce continuamente le medesime condizioni in cui vive il recluso per cui non è affatto diminuito il numero di ricorsi nei confronti dello Stato.

Ci sia concessa una modesta riflessione: innanzitutto è di netta evidenza come la condizione carceraria non fa che aggiungere una ulteriore penosità a quella derivante al detenuto per la penosità della perdita della libertà. Se lo Stato non è capace di garantire al detenuto una condizione carceraria umana e rispettosa dei diritti dell’individuo, che non possono essere limitati anche in condizione di perdita della libertà, crediamo non ci sia altra soluzione che ricorrere alla detenzione se non nei casi di reati che comportino una forte componente criminale ricorrendo negli altri casi alle ipotesi alternative della libertà provvisoria o della detenzione domiciliare anche quando si tratta di detenuti stranieri e sempre che vi siano le condizioni per accoglierli in strutture idonee dove sia loro concesso di esercitare tutti i diritti legati alla dignità della persona quali ad es. anche la possibilità di ricevere visite dai propri familiari.

Se non si persegue questo obiettivo, non potremo neppure ritenerci rispettosi del principio costituzionale che considera la pena come un momento delicato e insostituibile per la rieducazione del condannato.

E poi non dimentichiamo come il carcere, così come oggi è strutturato, finisce per essere definito “scuola del crimine” ponendo in contatto giovani caduti nelle maglie della giustizia con criminali incalliti, che hanno esaurito ogni possibilità di redimersi. Purtroppo, in questi ultimi tempi, anche a causa della crisi economica che ha portato al contenimento  delle spese destinate al settore giudiziario, va facendosi sempre più profondo il solco tra società civile e detenuti che vedono sbarrata ogni strada per il loro reinserimento nella società.

Fonte www.marinacastellaneta.it

Gennaio 2017

Nota a cura avv. E. Oropallo

Immunità diplomatica e difetto di giurisdizione dell’A.G. italiana

La Corte di Cassazione, sezioni unite civili, con ordinanza n. 26661/16 depositata il 22.12.2016, sulla richiesta di reintegra del lavoratore di un istituto di cultura, organismo di uno Stato estero ha stabilito che il Giudice italiano non ha giurisdizione in forza della regola consuetudinaria sull’immunità degli Stati in quanto la richiesta di reintegra del lavoratore a seguito del licenziamento richiede accertamenti che interferiscono sul potere sovrano dello Stato. A rivolgersi alla Suprema Corte era stata l’Accademia reale di belle arti spagnola con sede a Roma che aveva licenziato un proprio dipendente che aveva impugnato il licenziamento innanzi al Tribunale italiano sostenendo che si trattava di un licenziamento discriminatorio. La Cassazione ha riconosciuto l’immunità prevista dai trattati internazionali sostenendo che non è possibile altra soluzione in base all’art. 11 della Convenzione delle N.U. del 2004 sull’immunità giurisdizionale degli Stati e dei loro beni ratificata dall’Italia con legge 14.1.2013 n. 5, sancendo, conseguentemente, il difetto di giurisdizione del giudice italiano limitatamente alla domanda di reintegrazione sul posto di lavoro, anche in linea con la giurisprudenza della Corte EDU.

Gennaio 2017

Fonte: www.marinacastellaneta.it

Nota a cura avv. Oropallo

Confermata la costituzionalità della legge Severino

La Corte Costituzionale con sentenza n. 276 del 16.12.2016 ha confermato la costituzionalità della legge Severino in quanto le misure dell’incandidabilità, della decadenza e della sospensione non hanno carattere sanzionatorio, rappresentando solo conseguenze del venir meno di un requisito soggettivo per l’accesso alle cariche elettive per cui ha ritenuto che non trova applicazione in materia penale il principio di legalità.

I rimettenti in effetti avevano lamentato la violazione del principio di irretroattività delle norme penali essendo l’applicazione della legge Severino limitata alle sentenze di condanna relative a reati consumati dopo la sua entrata in vigore.

La questione non è fondata: a giudizio della Consulta, l’art. 25 c. 1 Cost. si riferisce soltanto alla pena e non anche alle misure sanzionatorie diverse dalla pena in senso stretto per cui esso non è applicabile alle disposizioni censurate per la natura non punitiva di quanto in esse previsto.

La legge Severino, scrive la Consulta, non contrasta neppure con la CEDU in quanto la Corte EDU ha escluso la natura penale della misura dell’incandidabilità, quando sia diretta ad assicurare un corretto svolgimento delle elezioni parlamentari (cfr. CEDU, sentenza 21.10.1997, Pierre Bloch c. Francia).

Con riferimento alla presunta disparità di trattamento tra soggetti che ricoprono cariche politiche nelle regioni e negli enti locali da una parte e parlamentari nazionali ed europei dall’altra, la Consulta ritiene non fondata la questione sulla considerazione della diversità delle situazioni soggettive messe a confronto. Né il fatto che i consigli regionali esercitino anche essi funzioni legislative fa venir meno la diversità del loro livello istituzionale e funzionale rispetto al Parlamento.

Gennaio 2017

Fonte (D & G)

Nota a cura avv. Oropallo

Ancora una volta la Legge Pinto sotto la lente della Cassazione

Ancora una volta la Cassazione è stata chiamata a pronunciarsi su un aspetto della legge Pinto nella sua nuova forma riveduta e corretta. Non sfugge, agli operatori del settore, come la Suprema Corte sia sollecitata da numerosi ricorsi per avere una interpretazione corretta della norma nell’applicazione che ne fa il giudice di merito. Ciò in considerazione dei numerosi interventi legislativi che vanno intesi solo nell’ottica di rendere più difficile e articolata la via del ristoro nei confronti dello Stato per l’ingiusta durata del processo. Valga la pena ricordare la l. 134/2012 (art. 35) che da una parte ha reso più tortuoso il percorso giudiziario per chi resta vittima della lentezza della giustizia e dall’altro ridotti anche gli importi liquidati portandoli sotto il livello di quelli applicati dalla Corte EDU mentre il giudice nazionale dovrebbe adeguarsi ai parametri europei. Tutto questo non fa che abbassare sempre di più l’asticella della legalità di questo paese alle prese con una crisi cronica del settore giustizia sul quale il legislatore interviene sistematicamente per riformare quanto già riformato. Si può dire che i Governi passano ma i problemi restano a conferma di un sistema perennemente in crisi per efficienza e credibilità. Inoltre, sembra proprio che questo sistema adottato dal legislatore sta ottenendo un risultato opposto a quello sperato.

La Corte Suprema recentemente ha chiarito (sent. n. 26627/16 del 21.12. 2016) che in tema di equa riparazione per la irragionevole durata di un processo penale, la disposizione di cui all’art. 2 c. 2 quinquies, lett. e) l. 89/2001- a tenore della quale non è riconosciuto alcun indennizzo “quando l’imputato non ha depositato istanza di accelerazione del processo penale nei trenta giorni successivi al superamento dei termini di cui all’art. 2-bis”, non è applicabile alle domande relative a procedimenti penali che alla data dell’entrata in vigore della stessa, avessero superato la durata ragionevole di cui all’art. 2 bis della medesima legge.

In effetti, la Corte preliminarmente ricorda che l’attuale disciplina – introdotta con la l. 208/2015 – ha abrogato il citato art. 2 quinquies prevedendo in tema di “rimedi preventivi” che l’istanza di accelerazione deve essere presentata almeno sei mesi prima che siano trascorsi i termini di cui all’art. 2, comma 2 bis. Tanto premesso, ritiene che questa norma non possa essere applicata retroattivamente nel caso di procedimenti che alla data di conversione della l. n. 134/2012 fossero già caratterizzati da un’eccessiva durata.

Non a caso, come accennato, questi interventi che finiscono per limitare l’accesso del cittadino alla giustizia, paradossalmente portano ad una moltiplicazione dei processi, ad un allungamento degli stessi, dilatando anche i costi della giustizia. Considerando l’ulteriore giro di vite della l. 208/2015, non è difficile prevedere un ulteriore peggioramento della situazione, tenendo conto che cresce l’attesa anche per ottenere l’effettivo ristoro, anche a causa delle limitate disponibilità dei fondi disposti dalla legge.

Gennaio 2017

Fonte Diritto & Giustizia

Nota a cura avv. E. Oropallo

Ingresso illegale e status di cittadino UE

Recentemente la Corte di Giustizia dell’UE si è pronunciata sul reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina che scatta con l’ingresso illegale di un cittadino extra UE che, successivamente, però aveva acquisito la cittadinanza europea a seguito dell’ingresso del proprio Stato nell’UE. Con sentenza del 6.10.2016 nella causa C-218/15, resa su rinvio pregiudiziale del Tribunale di Campobasso, la CdG, confermando le conclusioni dell’Avvocato generale, ha precisato che l’acquisizione dello status di cittadino europeo da parte di coloro che sono entrati illegalmente nel territorio italiano, non incide sugli elementi costitutivi del reato in materia di favoreggiamento dell’immigrazione. In effetti la Corte ha rilevato che “l’acquisizione della cittadinanza costituisce una circostanza di fatto che non è di natura tale da modificare gli elementi costitutivi del reato”. Quindi essa non fa venir meno il reato commesso dagli imputati nel procedimento penale dinanzi al Giudice italiano che è di carattere istantaneo e scatta nel momento in cui lo straniero attraversa le frontiere esterne dell’UE per cui i cambiamenti successivi sono irrilevanti.

Novembre 2016

Nota a cura avv. E. Oropallo

La convivenza more uxorio blocca l’espulsione

A chiarirlo è la Corte di Cassazione -1° Sez. pen. – con sentenza n. 44182/2016 depositata il 18 ottobre accogliendo il ricorso avverso l’ordinanza del Tribunale di Sorveglianza di Torino che aveva dato via libera all’espulsione del ricorrente in base all’art. 16 del Dlgs n. 286/1998.  La Corte riconosce che la condizione ostativa dell’espulsione del ricorrente in base all’art. 16 Dlgs n. 286/1998 è legata alla presenza di un coniuge o di un parente entro il quarto grado, dovendosi ritenere irrilevante la convivenza con una cittadina italiana. Ma l’approvazione della legge 20 maggio 2016 n. 76 “regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze” ha portato a cambiamenti che sono senz’altro rilevanti anche nel caso specifico in quanto, equiparando l’ipotesi della persona unita e convivente a quella del coniuge, il destinatario del provvedimento di espulsione può acquisire lo status familiare simile a quello del coniuge per cui manca il presupposto per ritenere legittima l’espulsione. Sentenza che ha rigorosamente e legittimamente ritenuto che anche la convivenza di fatto con cittadino italiano può ritenersi ostativa all’espulsione dello straniero.

Novembre 2016

Nota a cura avv. Eugenio Oropallo

La Scozia avvia il referendum anti Brexit

Come aveva minacciato nei mesi scorsi, il governo di Edimburgo presenterà nei prossimi giorni un disegno di legge per avviare un secondo referendum sull’indipendenza della Scozia dal Regno Unito. Al congresso del partito nazionalista scozzese che si è tenuto nei giorni scorsi a Glasgow, il primo ministro Nicola Sturgeon ha sostenuto che la Scozia deve riconsiderare la questione dell’indipendenza del paese, dopo la decisione della Gran Bretagna di lasciare l’Unione Europea, per proteggere gli interessi del paese. Ovviamente, Londra ha fatto subito sapere di non voler riconoscere agli scozzesi il diritto al “contro-referendum”. Ora, a parte il fatto che il referendum – questo come quello che si è concluso in senso favorevole all’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea – ha solo un carattere consultivo senza alcun vincolo per il governo, è chiaro quali potranno essere le implicazioni politiche di questo voto. La Scozia intende utilizzare il risultato del voto, se favorevole a restare nell’UE, per fare pressioni sul governo centrale – prima che venga completato il percorso di defezione della Gran Bretagna dall’UE per influire sulla decisione del parlamento nazionale che deve ancora esprimere il proprio voto a favore  o meno della Brexit o, in caso sia completato questo processo, per avere la libertà di uscire dalla Gran Bretagna e riappropriarsi della propria indipendenza. Un gesto forte che potrebbe davvero portare alla nascita di un nuovo Stato all’interno dell’Europa. Si tratta di ipotesi ma il governo scozzese sta lavorando in questa direzione. Tanto più che, il primo referendum ebbe esito negativo solo perché Cameron all’epoca non solo assicurò agli scozzesi maggiori concessioni ma, esplicitamente, che la Gran Bretagna non sarebbe uscita dall’UE. Dunque, la partita della Brexit resta ancora aperta e se il governo inglese ha deciso di dar seguito alla scelta risicata del referendum di uscire dall’UE, adesso dovrà vedersela con la grana che le scoppia in casa. Come negare al governo scozzese di indire un referendum per l’indipendenza della Scozia quando ha deciso, proprio in base ad un analogo referendum, di uscire dall’UE?

Non possiamo al momento immaginare quali saranno le conseguenze istituzionali di questo braccio di ferro: certo è che cambierà non solo la geografia politica ma anche la politica estera verso l’UE.

Ottobre 2016

Avv. Eugenio Oropallo

Il Senato americano rimuove l’immunità degli Stati esteri

Il 28 settembre scorso il Senato americano ha bocciato il veto apposto dal Presidente Obama sul progetto di legge “Justice Against Sponsors of Terrorism Act” in modo che la giustizia americana possa colpire gli Stati esteri che supportano, direttamente o indirettamente, organizzazioni e/o individui che compiono attività terroristiche contro gli Stati Uniti. Scrive la prof. Castellaneta in un commento sul suo blog, che ciò “può essere il preludio a un cambiamento anche sul piano internazionale, incidendo sulla norma consuetudinaria in materia di immunità di Stati esteri e organi dello Stato dalla giurisdizione civile. Con un possibile effetto a cascata ossia che anche altri Paesi seguano la strada tracciata da Washington”.  Sul ridimensionamento dell’immunità già si era pronunciata anche la giustizia italiana. In primis la Corte di Cassazione italiana che nella sentenza n. 5044/2004 aveva negato l’immunità alla Germania e riconosciuto la sussistenza della giurisdizione del giudice italiano in cui lo Stato estero, pur nell’esercizio della sua attività sovrana, aveva commesso atti configurati come crimini internazionali ma la Germania, ebbe a rivolgersi alla Corte Internazionale di Giustizia che con sentenza del 3.2.2014 condannava l’Italia per violazione della norma internazionale disponendo che “la Repubblica italiana …dovrà fare in modo che le decisioni dei suoi tribunali e quelle di altre autorità giudiziarie che violano l’immunità riconosciuta alla Repubblica federale di Germania dal diritto internazionale siano rese inefficaci”. Al fine di adempiere agli obblighi internazionali nonché di adeguarsi alle decisioni della CIG veniva promulgata la legge n. 5/2013 per cui nuovamente interpellata la Suprema Corte a seguito di ricorso da parte della Repubblica Federale di Germania avverso la sentenza della Corte d’Appello di Firenze (n. 490/2011), preso atto del mutato quadro normativo interno, non ha potuto fare altro che “dichiarare il difetto di giurisdizione con conseguente cassazione senza rinvio della sentenza impugnata”.  Lo stesso giorno in cui la Suprema Corte confermava l’avvenuto arresto della propria battaglia con la sentenza n. 1136/2014, interveniva una ordinanza del Tribunale di Firenze con cui si sollevava una questione di legittimità costituzionale a protezione dei principi fondamentali dell’ordinamento, ritenuto inaccettabile che, tramite il principio di uguaglianza sovrana degli Stati, possa sacrificarsi una effettiva tutela dei singoli nel caso di crimini contro l’umanità.

La Corte Costituzionale con sentenza n. 238 del 22.10.2014, già definita pronuncia “storica” non sembra che abbia risolto il problema sul piano pratico pur riconoscendo che sia “del tutto sproporzionato” il sacrificio che il diritto alla tutela giurisdizionale subirebbe in una situazione come quella del caso di specie in cui l’interesse concorrente da salvaguardare, ossia la funzione di governo sovrana dello Stato straniero, riguardasse la commissione di crimini internazionali. Detto questo, quando va ad affrontare la questione dell’incidenza della norma consuetudinaria nell’ordinamento interno, non può far altro che affermare che la norma consuetudinaria di diritto internazionale ha “rango equivalente” a quello costituzionale in virtù del rinvio effettuato dall’art. 10 Cost., e che, in caso di contrasto con altre norme e principi costituzionali non superabile in via ermeneutica, spetta alla stessa Corte in via esclusiva effettuare l’operazione di “bilanciamento” tra interessi e valori in conflitto. In prosieguo essa accoglie la eccezione di illegittimità costituzionale della legge di esecuzione della Carta dell’ONU in ragione dell’insuperabile contrasto che essa determina, nel caso di specie, con il diritto fondamentale alla tutela giurisdizionale garantito dagli artt. 2 e 24 della Costituzione.

La sentenza costituisce un tentativo di difesa dei principi fondamentali del nostro ordinamento, riconoscendo il diritto delle vittime dei crimini commessi dai nazisti di poter richiedere alla Repubblica Federale di Germania il ristoro dei danni subiti ma resta il dubbio riguardo alla sua incidenza pratica in considerazione delle perdurante efficacia della sentenza della CIG nell’ordinamento internazionale. Resta l’auspicio, difronte a questa preclusione giuridica, che il governo italiano decida di riaprire i negoziati. Ne avrà la forza questo Governo di riaprire una quérelle con la Germania nelle difficili condizioni in cui oggi lo Stato italiano si trova in seno all’UE?

Ne dubitiamo fortemente.

Ma, riportandoci alla decisione assunta dal Senato americano, la vicenda può condurre ad un vero e proprio stravolgimento delle regole poste a base dei rapporti interstatuali. Con questo atto, se non fosse corretto, gli USA in fondo non fanno che violare i principi posti a base della Carta delle NU. Se il suo esempio fosse seguito da altri Stati, si verrebbe a violare una norma consuetudinaria, quella dell’immunità degli Stati, che metterebbe fine ad una pacifica convivenza tra gli Stati.

Ed è quello che già sta accadendo in quanto il concetto di “Stato canaglia” è ormai entrato prepotentemente nei rapporti internazionali. Ma chi giudica che uno Stato possa definirsi tale, sempre che sia accertata una precisa responsabilità dello Stato per crimini contro l’umanità?

Nel caso di specie non va solo demolito il principio dell’immunità ma anche quello della certezza del diritto perché non vi è stato fino ad oggi nessuna azione giudiziaria nei confronti della Arabia Saudita né si è pronunciata in tal senso una Corte internazionale sulle sue eventuali responsabilità. Anche nel caso della condanna comminata dalla Corte Penale Internazionale a Milosevic, all’epoca dei massacri di Srebrenica, capo dello Stato jugoslavo, non vi è stato alcuna richiesta di indennizzo da parte delle vittime di quel massacro nei confronti della Serbia. Grave dunque il vulnus subito dal diritto internazionale in questo caso per cui ci attendiamo che la legge adottata dal Senato americano vada rimossa al più presto per evitare l’insorgere di conflitti ulteriori tra gli Stati che potrebbe mandare a gambe all’aria uno dei principi basilari che regola i rapporti internazionali tra gli Stati. Certo sarebbe auspicabile che siano cambiate le regole per una maggiore ed efficace tutela delle vittime civili dei crimini di guerra in presenza del riconoscimento di una precisa responsabilità degli Stati ma questo porrebbe in crisi tutto l’assetto internazionale facendo cadere il mondo in una nuova epoca di barbarie giuridiche. E poi, siamo proprio convinti che sia sempre e solo il diritto a regolare i rapporti tra gli Stati? Difronte ai disastri causati dagli USA nei loro ripetuti interventi in Afghanistan, in Medio Oriente, si può escludere la responsabilità per crimini di guerra degli USA? Sia pure amaramente, per chi si batte contro le ingiustizie, le discriminazioni e la guerra, bisogna ammettere che i conflitti economici e quelli politici stanno per aprire nuovi scenari pericolosi per la sicurezza internazionale e per la pace tra i popoli.

Ottobre 2016

Avv. Eugenio Oropallo

Reato di omesse contribuzioni previdenziali – interpretazione della nuova fattispecie penale

Una sentenza molto interessante della Terza Sezione Penale depositata l’08.09.2016 (Pres. Fiale, Est. Andreazza) in una materia di quasi quotidiana applicazione che chiarisce perfettamente i nuovi contorni della fattispecie di omesse contribuzioni previdenziali, individuando il momento consumativo (diverso da quello previsto dalla norma abrogata) che si individua non appena nell’anno di riferimento la mancata contribuzione supera la somma di € 10.000,00 non configurando le ulteriori omissioni un nuovo reato ma una progressione criminosa nel reato già perfezionato (reato unitario a consumazione prolungata).

Una bussola applicativa insomma molto chiara quanto utile.

Filippo Poggi

Relazione dell’Ufficio del Massimario sull’esegesi dell’art. 659 cod. pen.

In allegato la relazione dell’Ufficio del Massimario Penale della Cassazione che fa la ricognizione delle diverse interpretazioni dell’art. 659 del codice penale (commi 1^ e 2^) in tema di superamento dei rumori nell’esercizio di attività lavorative su cui si confrontano appunto diverse opzioni ermeneutiche che allo stato non hanno trovato una composizione.

Filippo Poggi

Legittimità costituzionale della sospensione dei termini feriali degli atti del processo esecutivo

Con sentenza n. 191 del 20.7.2016 la Corte Costituzionale ha confermato la costituzionalità dell’art. 3 n. 742/1969 che non si applica al procedimento esecutivo: la sospensione feriale dei termini. L’intervento della Corte è stato sollecitato dal GdE che ha sollevato la questione di legittimità costituzionale della richiamata norma per violazione del canone di ragionevolezza e del principio di uguaglianza rilevando che “l’esclusione della sospensione dei termini durante le ferie degli avvocati non debba riguardare solo i giudizi di opposizione all’esecuzione, ma debba estendersi anche al processo esecutivo, in ragione della esigenza di sollecita definizione, comune ad entrambi i procedimenti”.

La Corte ha ritenuto infondata la questione rilevando che la norma censurata deroga alla previsione generale dell’art. 1 della l. n. 742/1969 in forza del quale tutti i termini processuali delle giurisdizioni ordinarie e amministrative restano sospesi durante il periodo feriale escludendo dalla sua applicazione tutti i procedimenti previsti dall’art. 92 del R.D. 30.1.1941 n. 12, tra i quali sono contemplati i giudizi di opposizione all’esecuzione. Nello specifico, con riferimento alla motivazione posta a base della rimessione, rileva la Corte che il processo esecutivo consiste in una sequenza di atti per la realizzazione del credito mentre le opposizioni integrano dei veri e propri giudizi: la diversità strutturale dei due tipi di procedimenti non può essere ricondotta ad unità sul presupposto dell’esigenza di celerità come ad entrambi.

Pienamente condivisibile la decisione della Corte che conferiva un indirizzo consolidato.

Settembre 2016

Nota a cura Avv. Oropallo

Il valore probatorio della ricevuta di avvenuta consegna

La Corte di Cassazione con sentenza n. 15035 del 21/7/2016 si è pronunciata sul valore probatorio della ricevuta di avvenuta consegna della PEC. Richiama la Corte il DM 44/2011 che stabilisce che                             “le comunicazioni e le notificazioni telematiche su iniziativa del cancelliere si intendono perfezionate nel momento in cui viene generata la ricevuta di avvenuta consegna da parte del gestore di posta elettronica certificata del destinatario”. La trasmissione telematica, in forza del rinvio all’art. 48 c. 2 D.Lg. n. 82/2005, equivale alla notificazione per mezzo della posta per cui la ricevuta di avvenuta consegna (RAC) fornisce la prova al mittente che il suo messaggio di posta elettronica sia effettivamente pervenuto all’indirizzo elettronico dichiarato dal destinatario. La RAC, fino a prova contraria, costituisce dunque prova idonea che il documento sia effettivamente pervenuto nella casella di posta elettronica del destinatario. Tale notifica avviene senza alcuna cooperazione da parte di un pubblico ufficiale, come nel caso di notifica a mezzo posta per cui, nel caso in cui il destinatario contesti la ricezione, non è obbligato a proporre querela di falso, essendo sufficiente che alleghi prova certa che dimostri che il messaggio non sia pervenuto alla sua casella postale.

Settembre 2016

Nota a cura Avv. E. Oropallo