Il via alle Camere Arbitrali dell’Avvocatura

Sulla G.U. n. 70 del 20.3 scorso è stato pubblicato il DM n. 34/2017 che ha stabilito le modalità di costituzione e funzionamento delle camere arbitrali di conciliazione e degli organismi di risoluzione alternativa delle controversie, così come previsto dalla riforma dell’ordinamento forense che prevedeva la possibilità dei Consigli degli Ordini degli Avvocati di costituirle. Esse, dunque, entreranno a far parte dell’organico dei rispettivi ordini circondariali, i quali dovranno provvedere alla nomina dei loro componenti e alla fissazione dei criteri del regolamento di funzionamento. Essi saranno dotate di autonomia organizzativa ed economica per la gestione dei procedimenti. La sede delle Camere sarà presso l’Ordine Forense che dovrà stipulare anche una polizza assicurativa per la copertura dei rischi derivanti dalla responsabilità verso terzi e per gli eventuali danni cagionati dagli arbitri o dai conciliatori designati.

Tutte le disposizioni del decreto si applicheranno alle camere arbitrali e di conciliazione già costituite alla data di entrata in vigore del decreto medesimo, decorsi sei mesi dalla predetta data.

Una buona occasione per l’avvocatura per affiancare al sistema giudiziario un sistema alternativo di risoluzione di controversie affidate esclusivamente agli avvocati. Così potrà essere effettivamente diminuito il carico di lavoro per la giustizia ordinaria. Il successo di questa iniziativa è legato alla efficienza e al rigore con cui i Consigli degli Ordini sappiano adottare criteri obiettivi sia per la nomina che per il funzionamento delle camere. In un prossimo articolo esamineremo punto per punto la novella legislativa.

Aprile 2017

(Avv. E. Oropallo)

Divieto assoluto di respingimento per i minori stranieri non accompagnati

Finalmente, dopo numerosi rinvii e discussioni, la Camera dei Deputati il 29.3.2017 ha approvato definitivamente la cd. Legge Zampa contenente il divieto assoluto di respingimento del minore straniero non accompagnato. Purtroppo, le cronache di questi ultimi anni hanno visto crescere il numero di minori non accompagnati che si presentano alle frontiere dello Stato. Fenomeno che rendeva urgente una legislazione per cui si potesse avere una uniformità di trattamento, soprattutto per la difesa della integrità fisica e psichica del minore. Non dimentichiamo che a livello mondiale il minore viene tutelato da numerose convenzioni a partire dalla Dichiarazione Universale dei diritti del fanciullo conclusa a New York il 20 novembre 1989 nell’ambito ONU e ratificata dall’Italia con legge del 27 maggio 1991. L’art. 2 della legge dà una chiara definizione di minore straniero non accompagnato presente nel territorio dello Stato italiano sancendo che per esso si deve intendere “il minorenne non avente cittadinanza italiana o dell’UE che si trova per qualsiasi causa nel territorio dello Stato o che è altrimenti sottoposto alla giurisdizione italiana, privo di assistenza e di rappresentanza da parte dei genitori o di altri adulti per lui legalmente responsabili”. L’art. 3 sancisce il principio che afferma il divieto di respingimento del minore che si trovi nelle condizioni sopra descritte, salvo che da ciò non ne derivi un rischio per il minore. Aspettiamo che il governo italiano possa oggi fornire una prima tutela a questi soggetti per i quali non va presa alcuna forma di internamento, anche in caso di ingresso illegale in Italia, ma affidati a strutture competenti e organizzate per accompagnare questi minori fino al raggiungimento della maggiore età, semmai ricorrendo – ove ne sussistono i presupposti – anche all’affidamento a famiglie disposte ad accoglierli o a strutture sperimentate come le case-famiglia dove il minore possa ritrovare la gioia di vivere che gli è stata negata spesso dalle ingiustizie e dalla crudeltà di uomini e sistemi.

Aprile 2017

(Avv. E. Oropallo)

Processo in assenza dell’imputato – condizione per procedere rappresentata dalle elezione del domcilio presso difensore di ufficio

In questa interessantissima sentenza della Seconda Sezione Penale sono state annullate le sentenze del Tribunale e della Corte di Appello in quanto non è stato considerato sufficiente, ai fini della celebrazione del processo in assenza dell’imputato, la mera elezione del domicilio presso il difensore di ufficio col quale era immediatamente cessato ogni rapporto.

La motivazione precisa tra l’altro che l’elezione del domicilio è un atto semplicemente prodromico all’instaurazione del procedimento penale che avviene solo con l’iscrizione ai sensi dell’art. 335 c.p.p.

Una pronuncia che deve essere citata e impiegata senz’altro nella difesa di imputati sostanzialmente irreperibili nei confronti dei quali il processo dovrebbe essere sospeso anche in una interpretazione convenzionalmente orientata della normativa codicistica.

Ringrazio per la segnalazione la carissima amica Avv. Licia Zanetti componente dell’Osservatorio difesa di ufficio dell’UCPI.

Filippo Poggi

Bancarotta semplice e particolare tenuità del fatto ex art. 131-bis cod. pen.

Devo alla cortesia della mia carissima amica e collega Avv. Francesca Silvestroni questa interessante pronuncia della Corte di Appello di Bologna che ha ravvisato la causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto in un caso di bancarotta semplice documentale (la contestazione iniziale era di bancarotta fraudolenta già derubricata dal GIP all’esito del giudizio abbreviato) in cui l’atteggiamento dell’imputato era sempre stato particolarmente collaborativo con gli organi della curatela.

E’ comunque vero che di solito non siamo abituati ancora a pensare che questa causa di non punibilità possa essere applicata a questa tipologia di reati (da “colletti bianchi”) pur rientrandovi perfettamente quanto alla pena edittale.

Sotto un profilo processuale pare ormai prevalente l’indirizzo che ritiene applicabile di ufficio sempre nel giudizio di merito e a determinate condizioni anche in quello di legittimità, la causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis del codice penale.

Filippo Poggi

Sospensione dei termini processuali per il deposito della motivazione della sentenza? Remissione alle sezioni unite.

In allegato l’ordinanza con cui la Suprema Corte – Sezione Quarta Penale ha rimesso alle Sezioni Unite la questione circa l’applicabilità della sospensione feriale dei termini processuali anche per il deposito delle motivazioni delle sentenze.

La questione (della non applicabilità) è sostanzialmente pacifica dopo la pronuncia delle Sezioni Unite 19.06.1996 tuttavia la Sezione remittente ritiene che la questione debba essere rimeditata alla luce del mutato quadro normativo.

In particolare la Legge n. 67/2014 ha ridotto a 30 giorni le ferie dei magistrati nonché ridotto di 15 giorni il periodo di sospensione feriale dei termini processuali, attualmente previsto dal 1 al 31 agosto compreso.

La Sezione remittente osserva che nel mutato quadro normativo (oltre a riferimenti nel diritto EuroUnitario), non viene consentito ai giudici di godere del prescritto periodo di riposo (mentre la sospensione feriale si applica ai magistrati del pubblico ministero) mentre anche le ferie degli avvocati sono state notevolmente compresse sia dalla riduzione del termine di sospensione, sia dalla nuova disciplina del processo in assenza che non prevede più la notifica dell’estratto della sentenza all’imputato assente, con conseguente ovvia riduzione dei termini per l’impugnazione.

Insomma argomenti non del tutto peregrini che probabilmente meritano l’esame delle Sezioni Unite e che per una volta dovrebbero mettere d’accordo giudici e avvocati.

Filippo Poggi

Facoltà di astensione dei prossimi congiunti e pluralità di imputati

In questa sentenza della Quinta Sezione Penale è stato esaminato il caso di un imputato (Tizio) che con la stessa azione aveva minacciato di morte (brandendo una mannaia e un coltello) tanto il fratello (Caio) quanto un terzo estraneo (Sempronio).

Nel ricorso si è sollevata la questione di nullità della deposizione dibattimentale di Caio per mancato avviso della facoltà di astenersi per quanto riguardava il fatto commesso in danno del terzo soggetto (pacifico il fatto che Caio doveva deporre anche per il fatto commesso nei suoi confronti dal fratello Tizio in qualità di persona offesa dal reato).

In buona sostanza il fratello parte lesa era obbligato a riferire quanto commesso dall’imputato contro di lui ma non quanto commesso contro il terzo, almeno nell’impostazione della difesa.

In realtà la vera ratio decidendi della questione sottoposta alla Corte è stata quella secondo cui trattandosi di una nullità relativa ex art. 181 c.p.p. doveva essere immediatamente eccepita dal difensore dell’imputato presente al dibattimento (che è una partita a tennis e non a scacchi ….), la mancata eccezione comportava ovviamente la sanatoria della eventuale nullità e quindi la piena validità della deposizione ai fini della decisione.

La Suprema Corte però coglie l’occasione di motivare lungamente (con quello che però resta un obiter dictum) sul fatto che il fratello Caio non avrebbe comunque potuto avvalersi della facoltà di non rispondere sul fatto del prossimo congiunto ex art. 199 c.p.p. quando con una stessa azione di commetta una pluralità di reati (come nel caso che occupa anche nei confronti di Sempronio non legato da parentela o affinità a Caio).

In tal caso secondo la Corte l’unitarietà della condotta rende inscindibile il contenuto della deposizione con obbligo del prossimo congiunto di deporre e dire la verità, non potendosi ravvisare una inutilizzabilità relativa a parte della deposizione.

Una sentenza che merita una qualche riflessione.

Filippo Poggi

Decreto penale di condanna e speciale tenuità del fatto ex art. 131-bis del c.p.

In questa sentenza della Prima Sezione Penale depositata il 28.03.2017 Est. Magi viene affrontata la possibilità di applicare la speciale causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis codice penale all’interno del procedimento monitorio.

Nel caso di specie il GIP ritenendo “probabile” la ricorrenza di detta causa di non punibilità aveva restituito gli atti al PM, che impugnava l’ordinanza censurandone l’abnormità.

Nella sentenza la Suprema Corte premessa una ricostruzione dell’istituto giurisprudenziale dell’abnormità processuale, accoglie la richiesta del PM in quanto i poteri del GIP in sede di valutazione della richiesta di decreto penale sono esclusivamente quelli indicati tassativamente dalll’art. 459, comma 3 c.p.p.

La Cassazione prosegue aggiungendo che sarebbbe comunque inibito al GIP di prosciogliere l’imputato ax art. 129 c.p.p. facendo applicazione della causa di non punibilità e questo non perché la non punibilità del fatto non sia espessamente richiamata nell’art. 129 (per via interpretativa la sua rientranza nel novero delle cause di non punibilità) ma perché l’esito del processo monitorio sarebbe una sentenza di proscioglimento con completamente liberatoria tanto che deve essere iscritta nel certificato penale e tale conclusione comprimerenbbe i diritti della parti, imputato e parte lesa, che invece sono pienamente assicurati anche quando a tale esito si pervenga nella fase delle indagini preliminari con richiesta di archiviazione ex art. 411, comma 1-bis c.p.p.

Una sentenza che merita piena condivisione.

Filippo Poggi

Giudizio abbreviato e notifica avviso di deposito della sentenza all’imputato

In vista dell’interessantissimo Convegno del prossimo 13 Aprile 2017 a Cesena sul giudizio abbreviato con relatrici le Dott.sse Anna Mori e Cecilia Calandra consiglieri della Prima e della Terza Sezione Penale della Corte di Appello di Bologna, invio questo contributo dottrinale su una questione sicuramente minore, ma meritevole di qualche attenzione siccome incidente sui termini di impugnazione e sul passaggio in giudicato della sentenza.

Filippo Poggi

Il divieto del velo islamico per la lavoratrice mussulmana non è discriminazione

Lo afferma una recente sentenza della CdG europea del 14.3.2017 (Causa C- 157/15) che ha ritenuto che la norma del regolamento interno di un’impresa che vieta di indossare segni visibili di convinzioni politiche, filosofiche o religiose non costituisce una discriminazione, ritenendo che “la volontà del datore di lavoro di adottare una politica di neutralità è del tutto legittima e non viola il principio di parità del trattamento”.

Probabilmente la CdG, almeno per questa volta, non si è accorta della gravità della sua decisione: in sostanza, si potrebbe ipotizzare che la legge, quella di Stato, si fermi dinanzi ad una fabbrica all’interno della quale il datore di lavoro possa adottare apparentemente una politica di neutralità rispetto a determinati segni che individuano il soggetto come appartenente ad una religione, ad un partito, vietando qualsiasi segno che possa portare alla luce questa appartenenza. Se volesse adottare una politica di neutralità, ebbene la cosa più semplice sarebbe stata quella di riconoscere pari dignità a tutti i segnali religiosi o politici che non vengano però a limitare il regolare processo del lavoro. Ma dove venga adottato una soluzione del genere si finisce per non rispettare la legge di Stato. Se la fabbrica è un corpo estraneo alla società, una comunità chiusa, allora non possiamo lamentarci se si parla a proposito delle fabbrica, di una vera e propria galera dove al lavoratore non si riconosce la libertà di autodeterminazione, anche sotto il profilo religioso. In effetti, la Corte di giustizia ha ritenuto che non si può parlare di discriminazione, laddove il divieto si rivolge a tutti i dipendenti indiscriminatamente. Ci fa ricordare questa storia il divieto della minigonna a scuola che finì poi per far sorridere su una scuola moralista e bacchettona che voleva imporre alle ragazze la regola del grembiule nero, una divisa certamente compatibile con i regimi autoritari e sessisti. Anche quello era un segnale (negativo) di identità e ci vollero anni perché essi scomparissero dalle scuole. Giustamente qualche commentatore più accorto (La Repubblica del 15.3.2017) si chiede “se davvero la linea di difesa della laicità dello Stato si debba trovare sul tema dell’abbigliamento formale”. Se si va indietro di qualche mese, ricordiamo che sulle spiagge francesi, sia pure a livello comunale, era stato vietato alle donne di religione mussulmana di presentarsi al bagno nell’abbigliamento previsto dalle loro regole religiose. Certo, per fortuna, la Corte si è pronunciata sulla legittimità di un abbigliamento all’interno di un luogo di lavoro ma, come abbiamo osservato, la decisione è ancora più incredibile perché qui non si tratta del burqa che impedisce il riconoscimento della persona ma di un velo che copre i capelli della dipendente. Non si può consentire che alle donne mussulmane, specie nostre concittadine, sia impedito di lavorare a capo coperto o a una donna delle nostre parti di indossare i pantaloni. “La libertà della donna, di tutte le donne, – scrive La Repubblica – non può essere minacciata o anche solo insultata da chi – spesso con la violenza – voglia imporre limitazioni nel comportamento altrui”. Diversamente, finiremmo per  piegarci ad una perversa “tolleranza dell’intolleranza”.

Marzo 2017

(Avv. E. Oropallo)

Conferma della mediazione obbligatoria

Con un emendamento all’art. 53 del DDL Concorrenza il Governo, tramite il Ministro dello Sviluppo Economico, ha proposto di rendere permanente l’obbligatorietà del tentativo di mediazione- così come previsto dall’art. 5 d.lgs. n. 28/2010 nelle materie previste dal suddetto articolo, visti gli attuali risultati ottenuti dalla mediazione nel periodo di sperimentazione. Dai dati statistici elaborati dal Ministero della Giustizia – relativi alle pendenze dei procedimenti civili- si rileva, per l’anno 2015, una contrazione del 9,5 per cento rispetto all’anno precedente, da porsi, almeno in parte, in correlazione all’entrata a regime della disciplina dell’obbligatorietà del tentativo di mediazione. In realtà, pur a tener conto di questi dati, le mediazioni obbligatorie iscritte di cui all’art. 5 sono state, nel 2015, 151.469 che nel 43% dei casi si sono risolte con esito positivo evitando in tal modo di instaurare il contenzioso giudiziario. Dunque, 65.131 casi si sono risolti nella fase di mediazione. Non credo che questi risultati possono interpretarsi come un dato positivo, come si esprime il Governo. Certo, il passaggio da un sistema giudiziario rigido ad un sistema più elastico, più dinamico sarebbe auspicabile nella misura in cui al mediatore fosse dato il potere di decidere i casi anche senza l’accordo delle parti. Laddove, invece, la fase di mediazione risulta essere una fase di transito per accedere alla giustizia, ebbene essa viene vista da molti operatori di giustizia ed in particolare dagli avvocati solo come una condizione imposta dal legislatore per scoraggiare il ricorso alla giustizia più che un reale strumento di deflazione del carico giudiziario. Se vi è stata complessivamente una flessione del carico giudiziario nel 2015, esso è dovuto in larga parte ai sistemi che si è inventato il legislatore per bloccare un eccessivo afflusso del cittadino al suo giudice naturale. E ci riferiamo principalmente al doppio sbarramento inserito per l’appello civile (art. 342 e 348 bis cpc) e alla riforma della l. 89/2001 che ha disposto una pesante sanzione a carico del cittadino nel caso in cui il ricorso di appello appaia non giuridicamente fondato. Si tratta di una misura, sproporzionata e soprattutto a rischio di incostituzionalità, visto che una identica sanzione non sia posta a carico dello Stato. E’ chiaro che l’intento del Governo è quello di estendere il tentativo obbligatorio di mediazione anche a quelle materie che per il momento sono escluse dall’obbligatorietà. Se questo avvenisse, non è escluso che l’effetto paralizzante sarebbe di scarsa valenza così come è avvenuto quando è stato riformato l’appello civile per cui è aumentato il numero di ricorsi in Cassazione.               E’ l’effetto analogo a quello fisico dei vasi comunicanti: la soluzione più radicale sarebbe quella di eliminare il grado di appello, destinando nel contempo maggiori risorse, umane e tecniche, al sistema giudiziario con una maggiore e più accorta organizzazione delle sedi giudiziarie e facendo rientrare nei ruoli quei magistrati che sono stati prestati all’apparato ministeriale, svolgendo un ruolo certamente non istituzionale.

Fonte D & G 19.3.2017

Nota a cura avv. E. Oropallo

Accoglimento dell’appello del pm ex art. 310 cpp e motivazione rafforzata

In allegato una interessante sentenza della VI sezione penale in tema di accoglimento dell’appello cautelare del pm ex art. 310 c.p.p. ed oneri di motivazione del Tribunale del Riesame.

In buona sostanza viene evidenziato che non vi può essere una perfetta coincidenza tra appello cautelare e appello di merito in cui in caso di ribaltamento della assoluzione emessa in primo grado sul giudice di appello incombe un onere di motivazione “rafforzata” anche a seguito dell’art. 533, comma 1 c.p.p.

E ciò in ragione dei canoni di giudizio diversi che governano i due gravami: elevata probabilità di condanna nel primo caso, certezza processuale della colpevolezza dell’imputato nel secondo.

Tuttavia leggendo attentamente la sentenza (v. pag. 6) occorre rilevare che la Cassazione anche premessi questi principi generali, afferma che la decisione di rigetto del GIP non può essere considerata tamquam non esset, quindi il giudizio di secondo grado cautelare ” non può prescindere, in relazione al canone logico della completezza, dai profili ricostruttivi e dagli argomenti che abbiano portato al giudizio liberatorio, comportando l’omissione un vizio di motivazione  … (solo in tali limiti può porsi un onere rafforzato di motivazione)”.

Viene anche affermato che la mancata valutazione di una memoria presentata dalla difesa nel corso del procedimento non può comportare la nullità dello stesso, tuttavia se mancato esame di quelle ragioni se non altrimenti valutate, comporta senz’altro l’annullamento con rinvio dell’ordinanza emessa dal tribunale distrettuale per vizio motivazionale.

Interessanti anche le considerazioni in tema di “attualità” delle esigenze cautelari (v. pagg- 7-8). L’ordinanza è stata annullata con rinvio.

L’estensore della sentenza è una delle più fini menti giuridiche penalistiche che abbiano prestato a suo tempo servizio al Tribunale di Forlì, il Dott. Massimo Ricciarelli.

Filippo Poggi

Riforma del codice penale e di procedura penale nonché deleghe al Governo

In allegato il maxiemendamento del Governo approvato dal Senato con voto di fiducia del 15.03.2017 che ha sostituito integralmente il DDL 2067 e che ora torna all’esame della Camera, provvedimento nei confronti del quale l’UCPI ha deliberato l’astensione dalle udienze in ragione del metodo di approvazione con voto di fiducia che impedisce l’esame del Parlamento delle singole norme (molte condivisibili, altre del tutto inaccettabili).

Filippo Poggi

Applicazione di ufficio delle sanzioni sostitutive in appello

In allegato la recentissima sentenza delle Sezioni Unite (depositata il 17.03.2017) che aggiunge un ulteriore tassello al carattere strettamente devolutivo del giudizio di appello (nonché alla necessità che sia specificamente argomentato a pena di inammissibilità) con la conseguenza che si è ritenuto che non possono essere concesse di ufficio ex art. 597 c.p.p. le sanzioni sostitutive di cui all’art. 53 della Legge n. 689/1981 se non richiesta espressamente nell’atto di appello dell’imputato, trattandosi di un autonomo punto di impugnazione che non può rientrare genericamente nella impugnazione del trattamento sanzionatorio (di contrario avviso erano state le conclusioni, argomentate in maniera molto puntuale e, almeno ad avviso di chi scrive, condivisibili del Procuratore Generale che aveva argomentato appunto per la possibilità di esercizio del potere officioso del giudice una volta che fosse stata validamente impugnato il trattamento sanzionatorio inflitto dal giudice di primo grado).

In (almeno) apparente  controtendenza, la pronuncia della Terza Sezione Penale n. 6870 – 2017 con Presidente Fiale che ha ritenuto, a certe condizioni, rilevabile di ufficio in qualunque fase e grado del giudizio, la causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis del codice penale.

Filippo Poggi

Notificazioni ai sensi dell’art. 157, comma 8-bis c.p.p. e domicilio dichiarato

Con questa pronuncia appena depositata della VI Sezione Penale viene autorevolmente disatteso un indirizzo giurisprudenziale che aveva preso un certo seguito anche presso la Corte Felsinea per cui si riteneva di potere procedere alla notifica del decreto di citazione in appello presso il difensore di fiducia anche quando l’imputato avesse ritualmente dichiarato il domicilio ex art. 162 c.p.p.

Come si rileva nella motivazione della sentenza (che annulla con rinvio la pronuncia di appello) tale orientamento finiva per “sterilizzare” (v. pag. 5) il dato normativo come interpretato anche dalle Sezioni Unite con la quali si era giunti, almeno ad avviso di scrive, ad un assetto che coniugava efficienza e garanzie, l’imputato era infatti gravato dell’onere di dichiarare il domicilio se voleva ricevere personalmente le notifiche del processo. Una interpretazione diversa, a diritto vigente, forza il dato normativo sulla base anche di non persuasive citazioni della giurisprudenza della Corte Edu, finendo per onerare il difensore di fiducia di comunicazioni anche a mezzo raccomandate o telegrammi che non gli competevano, magari quando avesse anche espressamente ricusato di volere ricevere notifiche per conto dell’assistito.

Una sentenza che merita piena condivisione.

Naturalmente la nullità va eccepita nella fase dell’accertamento della costituzione della parti nel processo di appello.

Filippo Poggi

Ricorso oggettivamente cumulativo e prescrizione del reato intervenuta dopo il grado di appello

In questa importante pronuncia delle Sezione Unite Penali si trova un ulteriore tassello del programma con cui a partire almeno dal 2000 (v. Cass. sez. un. 22.11.2000 che è stata criticata da alcuni come una invasione di campo nel terreno del legislatore) la Suprema Corte con una giurisprudenza assai innovativa ha inteso contrastare la prescrizione del reato (o comunque le cause di non punibilità) intervenuta dopo l’appello e prima della trattazione del ricorso per cassazione.

La Suprema Corte ha stabilito che l’inammissibilità del ricorso non consente di ritenere instaurato un valido rapporto processuale di talché la prescrizione intervenuta nelle more del giudizio non può essere dichiarata ai sensi dell’art. 129 c.p.p.

Tale approdo giurisprudenziale, unito alla norma che in cassazione prevede la possibilità di dichiarare inammissibile il ricorso manifestamente infondato (e la differenza tra infondatezza e manifesta infondatezza è talmente sottile che consente di farne una applicazione molto selettiva per dichiarare inammissibili anche ricorsi in cui si spendono pagine di motivazione e che proprio “manifestamente” infondati non sembrerebbero).

Per questo più che per altro le sentenze di prescrizione in Cassazione sono molto rare.

Come si diceva con questa sentenza che sembra condivisibile (se si ammette il principio sotteso), la Suprema Corte ha stabilito che nel ricorso oggettivamente cumulativo proposto dallo stesso imputato, ai fini della possibilità di dichiarare la prescrizione è necessario che detto ricorso sia ammissibile per tutti i capi della sentenza impugnata (ossia per ogni reato singolarmente considerato), non potendosi dichiarare la prescrizione per i reati nei confronti dei quali il ricorso non superi il vaglio di ammissibilità.

La sentenza delle Sezioni Unite riguardava due fatti di falsa testimonianza uniti sotto il vincolo della continuazione, ma la pronuncia è già contrastata dalla sentenza della Terza Sezione che opera appunto un distinguo nel caso di reato continuato, nel cui caso, trattandosi anche se fittiziamente di un reato unico, il ricorso ammissibile nei confronti di uno reati consente di dichiarare la prescrizione per tutti.

Non è mai stato chiaro, almeno per chi scrive, perché a fronte di una così nitida affermazione di principio sulla valida instaurazione del rapporto processuale, sia comunque pacifico che anche nel caso di ricorso inammissibile se interviene la remissione con accettazione della querela, sia possibile dichiarare l’estinzione del reato.

La sentenza della Terza Sezione poi ribadisce chiari principi di diritto ai fini del vaglio di ammissibilità del giudizio abbreviato condizionato, in una delicata vicenda di violenza sessuale nei confronti di minori.

Filippo Poggi

Specificità dei motivi di appello – Cass. sez. un. 8825/2017

Una sentenza di grandissimo interesse sul grado di specificità dei motivi di appello al fine di superare il vaglio di ammissibilità ex art. 581 c.p.p.

Va detto che la questione sta da sempre particolarmente a cuore al Primo Presidente Canzio che ne ha parlato in molti convegni e che della inammissibilità dell’appello ha saputo fare uso come Presidente di Corte prima a L’Aquila poi a Milano.

Va anche aggiunto che la questione potrebbe essere a brevissimo rimessa in gioco se approvato in Senato con voto di fiducia il DDL 2067 già approvato alla Camera il 23.09.2015 e sul quale l’UCPI ha proclamato una giustissima astensione dalla udienza, proprio sull’apposizione del voto di fiducia in un DDL che contiene molte norme condivisibili ed anche eccellenti ma altre che, almeno a mio giudizio, non dovrebbero mai trovare ingresso nel nostro rito processuale penale (penso alla enorme dilatazione della possibilità di procedere con l’imputato collegato in video conferenza con la modifica dell’art. 146-bis disp. att. c.p.p.).

Tornando alla questione dell’appello nel DDL vi è una norma che non può che suscitare molte perplessità ovvero l’introduzione all”art. 591 c.p.p. di un ulteriore comma 1-bis che attribuisce al giudice a quo (quello che ha emesso la sentenza impugnata) di dichiarare l’inammissibilità “anche di ufficio e senza formalità” dell’appello (norma che potrebbe valere anche per l’appello cautelare ex art. 310 c.p.p.). Anche se va detto tale inammissibilità può essere dichiarata solo per motivi formali, almeno stando al testo attuale del DDL, che esclude per il giudice a quo l’applicazione dell’art. 581 e quindi di sindacare egli stesso la specificità dei motivi proposti avverso la “propria” sentenza.

Tra l’altro il DDL prevede la modifica tanto dell’art. 546 c.p.p. imponendo al giudice un obbligo di motivazione molto più stringente e di converso alla sostituzione della formulazione dell’art. 581 c.p.p. che disciplina la forma dell’impugnazione, prevedendo la sanzione dell’inammissibilità dell’impugnazione che non soddisfi i requisiti indicati nelle nuove lett.a) – b) – c) – d).

In buon sostanza, in linea con gli orientamenti da anni portati avanti dal Presidente Canzio, si deve instaurare un complesso regime dialettico tra il giudice e l’appellante (o il ricorrente) che impegna tanto il giudice quanto il difensore cui è richiesta una professionalità ed una capacità tecnica sempre più elevata; questa è sicuramente l’impostazione del Primo Presidente, vi è da sperare che non si prenda la palla al balzo, snaturando le affermazioni della pronuncia, per fare diventare l’appello una gara a ostacoli in cui l’inammissibilità sia sempre dietro l’angolo.

La complessità della sentenza delle sezioni unite è tale che un esame di tutte le sue implicazioni richiede capacità cui ci sentiamo francamente impari.

Si può dire però che le Sezioni Unite hanno accolto la tesi più restrittiva tra le due che si contendevamo il campo nella giurisprudenza della Cassazione, con la conclusione che la specificità dei motivi di appello, ferma restando la  grande differenza che esiste tra i due giudizi, non differisce in alcun modo da quella prevista dai motivi di ricorso per cassazione.

Non bisogno però dimenticare che oltre la strutturale differenza tra il giudizio di appello e quello di cassazione, il giudice di appello ha dei poteri di ufficio non certo trascurabili e previsti dall’art. 597, comma 5 c.p.p. tra cui concedere di ufficio la sospensione, condizionale, la non menzione, attenuanti generiche e formulare diversamente il giudizio di valenza delle circostanze attenuanti e aggravanti (si discute se abbia il potere di concedere ex officio anche le sanzioni sostitutive previste dall’art. 53 della Legge n. 689/1981).

Ebbene nella sentenza impugnata con cui è stata confermata l’ordinanza di inammissibilità resa dalla Corte di Appello di Bologna, il difensore avere richiesto genericamente una riduzione della pena inflitta (impugnazione aspecifica che sicuramente deve superare il vaglio di ammissibilità), tuttavia avendo richiesto anche l’applicazione di un diverso giudizio di valenza e l’applicazione della diminuzione per le generiche nella misura massima di 1/3 (cfr. par. 10.1 e 10.2 della motivazione).

Viene da chiedersi se trattandosi di sollecitazioni di poteri officiosi del giudice di appello, necessitassero di una motivazione specifica o addirittura fosse sufficiente la loro mera enunciazione, visto che vi è pacifica giurisprudenza per cui l’appellante non può dolersi della mancata attivazione del giudice con i suoi poteri officiosi, ma in caso di richiesta il giudice di appello ha l’obbligo di motivare in caso di diniego, trattandosi quindi di una censura certamente ammissibili (si pensi ad una richiesta svolta durante la celebrazione dell’appello e messa a verbale).

Insomma si tratta di materia complessa, di importanza strategica per le future dinamiche del processo penale in fase di impugnazione, la cui esegesi richiede davvero il contributo di tutti.

Filippo Poggi

Prelievo coattivo di liquidi biologici in caso di omicidio o lesioni stradali

In allegato la Circolare emessa dal Dott. Giuseppe Amato quando era Procuratore a Trento (v. pagg. 5-8) e che pare avere confermato nella sua nuova qualità di Procuratore Distrettuale di Bologna.

Nella Circolare inviata anche alle Forze di Polizia oltre che ai Sostituti, viene rammentato che la normativa vigente pur interpolata dall’art. 359-bis c.p.p., non pare consentire il prelievo coattivo di sangue in quanto la norma di riferimento ex art. 224-bis c.p.p. prevede solo il prelievo di capelli, peli e mucosa del cavo orale, norme che in quanto incidono sulla libertà personale sono soggette ex art. 13 Cost. alla doppia riserva di legge e giurisdizionale.

La questione è affrontata anche nella Relazione del Massimario della Cassazione pubblicato nel 2017 e pare fondata su ragioni non certo peregrine anche nella relazione del Dott. Alberto Ziroldi Presidente Aggiunto dell’Ufficio GIP di Bologna in recente convegno bolognese.

Insomma vale la pena di approfondire la questione anche perché se fondata la tesi renderebbe gli esiti del prelievo radicalmente inutilizzabili ex art. 191 c.p.p., oltre al fatto che il soggetto indagato avrebbe tutto il diritto ad opporsi al prelievo coattivo (senza la possibilità di configurare nei suoi confronti il reato di resistenza a pubblico ufficiale), salva la configurazione della sola contravvenzione di rifiuto al prelievo di sangue o altri liquidi biologici.

Filippo Poggi

Opposizione a decreto ingiuntivo e mediazione obbligatoria

Il Tribunale di Pavia con recente sentenza della 3° Sez. Civ. del 20.1.2017 ha riaffermato che, nel caso di mediazione obbligatoria, non si può ritenere soddisfatta la condizione di procedibilità se, pur imposta la mediazione, ci si è fermati all’incontro preliminare informativo e, se si tratta di decreto ingiuntivo opposto e la parte onerata non ha partecipato senza valido motivo, il decreto ingiuntivo diviene definitivo. Sentenza interessante che riafferma il principio che la mediazione deve essere effettivamente svolta e non si riduca, come spesso avviene, ad un mero adempimento di natura burocratica. La questione affrontata riguardava una opposizione a d. i. promossa da una società commerciale che contestava il pagamento di una fattura emessa dalla società opposta per presunte inadempienze di quest’ultima. Nel corso del procedimento, e dopo l’istruttoria testimoniale, nonostante le richieste dell’opponente di proseguire l’espletamento della prova testimoniale delegata, veniva disposto dal Giudice la mediazione ex art. 5 c. 2 D.Lgs. n. 28/10 che aveva esito negativo in quanto, pur avendo l’opposto avviato la mediazione, l’opponente non si presentava all’incontro, per cui l’opposto nel giudizio di mediazione, chiedeva dichiararsi l’improcedibilità del giudizio all’udienza di verifica dell’esito della mediazione. Eccezione che veniva accolta dal Tribunale il quale riteneva improcedibile l’opposizione promossa dalla opposta, confermando il decreto ingiuntivo opposto rilevando sulla scorta della sentenza della Suprema Corte (n. 24629/15) che l’onere della presentazione della istanza spetta all’opponente che in questo caso non solo aveva lasciato all’opposta l’onere di promuovere la mediazione ma addirittura aveva addotto una futile motivazione per giustificare la sua mancata partecipazione.

Fonte: Guida al Diritto n. 2.2017

Marzo 2017

Nota a cura Avv. E. Oropallo

D.L. 12.9.2014 n. 132 Procura Speciale

Con decreto del 14.12.2015 il Tribunale di Milano – IX Sez. Civ. – ha ritenuto che la previsione normativa della comparizione personale dei coniugi innanzi all’Ufficiale di Stato Civile non esclude la possibilità di uno di essi di avvalersi della rappresentanza di un procuratore speciale e ciò sulla base dell’argomentazione che l’utilizzo dell’avverbio “personalmente” compare anche nella procedura giurisdizionale ma ciò non preclude, come avviene di prassi, la rappresentanza a mezzo del procuratore speciale. Di avviso contrario è il Ministero della Giustizia in quanto dal tenore letterale del richiamato art. 12 c.3 si legge che “l’Ufficiale dello Stato Civile riceve da ciascuna delle parti personalmente, con l’assistenza facoltativa di un avvocato, la dichiarazione che essi vogliono separarsi ovvero far cessare gli effetti civili del matrimonio o ottenerne lo scioglimento secondo condizioni tra di esse concordate”.  Appare pacifico, dunque, in base al tenore letterale, che l’Ufficiale dello Stato Civile deve sentire personalmente le parti. Non può costituire elemento decisivo, come invece supposto dal Giudice nel richiamato provvedimento, il fatto che la legge sul divorzio stabilisca che i coniugi debbano comparire personalmente innanzi al Presidente del Tribunale o a mezzo procuratore speciale, solo ove soccorrono gravi e comprovati motivi. Motivi che devono essere delibati dal Presidente del Tribunale mentre detta specificazione non è contenuta nel corpo della norma dell’art. 12 del D.L. 132/2014 per cui si può agevolmente escludere detta ipotesi di rappresentanza. Una diversa interpretazione, operandosi in un contesto non giudiziale e senza il controllo quindi di un Giudice, potrebbe far venir meno la garanzia della genuinità ed attualità delle dichiarazioni delle parti ricevute dall’Ufficiale di Stato Civile. In effetti, il Ministero ha fatto uso del principio che ove manchi una espressa disposizione, non si possa interpretare la norma in senso estensivo per cui va esclusa qualsiasi possibilità per uno dei coniugi di farsi rappresentare da un procuratore in questo specifico caso.

Fonte: Guida al Diritto n. 48/2016

Marzo 2017

Nota a cura avv. E. Oropallo