Assegno alimentare del minore

Con ordinanza n. 12977/17 depositata il 23.5 la Corte di Cassazione (Sez. VI Civ.) ha confermato la sentenza del Tribunale di Forlì che confermava la sentenza del GdP con cui accoglieva l’opposizione proposta dall’ex coniuge avverso il precetto notificatogli dall’ex moglie in forza di sentenza di divorzio e avente ad oggetto l’assegno dovuto per il mantenimento del figlio minore. La Corte di Cassazione ha ritenuto mancasse la legittimazione attiva della ex coniuge richiamando il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui “il genitore, separato o divorziato, a cui il figlio sia stato affidato durante la minore età, è legittimato iure proprio ad ottenere dall’altro genitore il pagamento dell’assegno per il mantenimento del figlio, quale titolare di un diritto autonomo (e concorrente con quello del minore)  a ricevere il contributo delle spese necessarie a detto mantenimento”. Tale legittimazione sussiste anche nel momento in cui il figlio sia diventato maggiorenne ma non ancora autosufficiente ed in assenza di un’autonoma iniziativa in tal senso, salvo che venga meno il rapporto di coabitazione, come è avvenuto nel caso esaminato dalla Corte, che correttamente ha ritenuto che la ricorrente avesse agito in un nome proprio e quindi carente di legittimazione.

Fonte D & G

Giugno 2017

Nota a cura Avv. E. Oropallo

Nessun assegno divorzile se il richiedente guadagna almeno 1.000 euro al mese

Così ha deciso il Tribunale di Milano – Sez. IX Civ. – con ordinanza del 22.5 respingendo la domanda di assegno divorzile formulata dalla ex coniuge, in applicazione dei criteri indicati dalla Corte di Cassazione (Cass. n. 11504/2017) fornendo una prima interpretazione pratica del concetto di indipendenza economica. Alla luce del revirement della Suprema Corte, il Tribunale precisa che l’assegno di divorzio non è finalizzato più a garantire al coniuge meno abbiente il mantenimento del pregresso tenore di vita, ma è dovuto solo se il richiedente non abbia – e non possa procurarsi – i mezzi necessari al raggiungimento della indipendenza economica.

Nel caso concreto, in via provvisoria, il Tribunale ha negato il diritto all’assegno divorzile all’ex coniuge che solo in sede di divorzio aveva avanzato tale richiesta sulla base di un presunto reddito di circa 1.000 euro al mese, riconosciuto dalla ricorrente che aveva fatto richiesta di accedere al gratuito patrocinio avendo un reddito annuo inferiore ad € 11.528,00 dunque pari a circa 1.000 euro al mese.

Per indipendenza economica – scrive il Tribunale – deve intendersi la capacità per la determinata persona adulta e sana –tenuto conto del contesto sociale di riferimento – di provvedere al proprio sostentamento, inteso come capacità di avere risorse sufficienti per le spese essenziali (vitto, alloggio, esercizio dei diritti fondamentali)”. Ai fini pratici, avendo fatto richiesta la ricorrente al gratuito patrocinio, per avere un reddito inferiore ad € 11.528,00 (ossia circa € 1.000 al mese), il Tribunale ha ritenuto sussistere una capacità reddituale che potesse soddisfare le spese essenziali, costituendo ulteriore parametro di riferimento il reddito medio percepito nella zona in cui il richiedente vive ed abita. Ci sembra che il paramento adottato in questo caso sia molto lontano dalla realtà perché va accertato in concreto il reddito del ricorrente e non presunto astrattamente dal parametro di riferimento indicato nella richiesta di gratuito patrocinio perché se è vero che la soglia è determinata da un reddito inferiore ad € 11.528 annui, non significa che il reddito effettivo debba ritenersi pari presuntivamente a circa              € 1.000 al mese ma potrebbe essere di gran lunga inferiore. Sotto questo profilo, ci sembra che l’ordinanza, anche se provvisoria, non sia correttamente motivata.

Fonte D&G

Giugno 2017

Nota a cura avv. E. Oropallo

Ancora un commento alla sentenza n. 11504/17 Cass. depositata il 10.5.2017

Per comprendere la reale portata della sentenza già commentata in una precedente nota, definita “rivoluzionaria”, non mi sembra che si possa parlare di una totale revisione della giurisprudenza anteriore. In effetti, la Cassazione ha ritenuto di respingere la domanda proposta dall’ex consorte di un economista e politico italiano in quanto tenendo conto delle carte depositate proprio dalla ricorrente, annotando che “è un’imprenditrice, ha un’elevata qualificazione culturale, possiede titoli di alta specializzazione e importanti esperienze professionali, anche all’estero”. Difficile quindi pensare che non sia in grado di garantirsi una adeguata “indipendenza economica” per cui è stata confermata sia la sentenza del Tribunale che della Corte d’Appello che avevano già respinto la richiesta della ricorrente, non avendo la stessa dimostrato “l’inadeguatezza dei propri redditi” a fronte, peraltro, della “contrazione reddituale” subita dall’ex marito “allo scioglimento del matrimonio”.

Con altra ordinanza – la n. 12879/17 – depositata il 22.5 la Corte di Cassazione si è pronunciata negativamente sulla richiesta di assegno divorzile promossa dall’ex coniuge che aveva instaurato una stabile convivenza con altro soggetto.

In considerazione del nuovo indirizzo giurisprudenziale, scrive la Corte, in presenza di una stabile convivenza da parte dell’ex coniuge con altro soggetto, deve ritenersi cessata l’obbligazione di cui all’art. 5 l. n. 989/70 in conseguenza della cessazione della solidarietà che caratterizza i rapporti tra ex coniugi dopo il divorzio.

Altra ordinanza, sempre della Cassazione quasi contemporaneamente invece (Sez. VI n. 18878/17 depositata il 29.5), ha ritenuto di respingere le obiezioni mosse dall’ex marito confermando l’obbligo di versare all’ex moglie un corposo assegno mensile, ritenendo irrilevante il fatto che quest’ultima avesse rifiutato alcune offerte di lavoro. Unica concessione: la riduzione della cifra stabilita in Tribunale, circa 3.000 euro ogni mese. Come si vede, un’interpretazione, quella della Cassazione, tutt’altro che uniforme. Segno che bisognerà lavorare per uniformare sul punto la giurisprudenza di legittimità.

Giugno 2017

(Avv. E. Oropallo)

Dibattimento a distanza e riforma della prescrizione

Per chi (come anche il sottoscritto peraltro) cominciasse a sentire la pesantezza (anche sul portafogli) di cinque settimane di astensione dalle udienze o cominciasse a dubitare della bontà delle nostre ragioni contro parti inaccettabili di questo DDL che si vuole approvare senza dibattito con voto di fiducia (anche per evidenti ragioni elettorali), basti dare un’occhiata a questo interessante lavoro di Lorusso per comprendere quanto noi avvocati penalisti stiamo dalla parte della ragione nell’interesse di tutti.

Quanto alla prescrizione, oltre alla semplice considerazione (ma che fa accapponare la pelle) per cui a seguito della modifica di cui si pretende l’approvazione senza approfondimenti, si pensi che per la prescrizione di una banale contravvenzione saranno necessari 8 anni mentre per i delitti meno gravi 10 anni e 6 mesi, tempi inaccettabili per imputati e parti lese in qualsiasi parte di un mondo civile.

Tra l’altro in tema di prescrizione, recenti dati del Ministero della Giustizia fanno comprendere benissimo che il tema della prescrizione come quasi sempre è mal posto e le cause non conosciute quando non volontariamente travisate (come fanno alcuni organi di stampa).

Ebbene la prescrizione in appello deriva molto spesso e banalmente dal ritardo con cui le cancellerie dei Tribunali mandano i fascicoli in appello e dal mancato serio spoglio dei fascicoli in appello da parte dei Dirigenti degli Uffici (diversamente da quanto avviene in Cassazione dove i fascicoli sono ben monitorati dagli uffici spoglio) la conseguenza è che per esempio a Bologna (dati 2015) abbiamo una percentuale di prescrizione di circa il 21% (media Italia 24%) mentre il record negativo è raggiunto dalla Corte di Venezia col 52%. Eppoi ci sono le virtuose Lecce 8%, Palermo e Trieste 6% infine Bolzano 2% e Trento 1%.

Insomma bando alle sospensioni delle prescrizioni e forza con i programmi organizzativi seri e condivisi di gestione delle pendenze penali.

Filippo Poggi

Stato di diritto

Parla invece dei diritti fondamentali dell’uomo e lo fa scegliendo parole importanti che vanno ben al di là del ‘capo dei capi’ e ci riguardano tutti, anche se oggi ci ripugna ammetterlo.  E’ una sentenza che parla anche di chi va a morire all’estero  per avere una fine dignitosa perché, come scritto dai pm milanesi del caso Cappato – Dj Fabo, esiste un “diritto alla dignità garantito sia dalla Costituzione che dalla Convenzione europea”. Parla anche dei nostri vecchi genitori quando  negli ospedali o negli ospizi vengono brutalizzati perché non possono difendere la loro estrema dignità di esseri viventi. E ne parla con in mano la nostra costituzione e la legge, quindi se si vuole criticare questa sentenza bisogna farlo usando il suo stesso linguaggio.

Bisogna allora spiegare con le categorie del diritto perché per Riina non valga la “giurisprudenza costante di questa Corte affinché la pena non si risolva in un trattamento inumano e degradante, nel rispetto degli articoli 27 della Costituzione (“Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità”) e 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (“Nessuno può essere sottoposto a totura né a pene né a trattamenti inumani o degradanti”)”. “Lo stato di salute incompatibile con il regime carcerario – scrivono i magistrati citando diverse pronunce –   idoneo a giustificare il differimento dell’esecuzione della pena per infermità fisica o l’applicazione della detenzione domiciliare della persona non deve limitarsi alla patologia implicante un pericolo di vita per la persona, dovendosi piuttosto avere riguardo a ogni stato morboso o scadimento fisico capace di determinare un’esistenza al di sotto della soglia di dignità che deve essere rispettata pure nella condizione di restrizione carceraria”.     

Bisogna allora avere davanti le cartelle cliniche di Riina, che sappiamo avere 87 anni, essere immobile dalla vita in giù, col respiratore, due tumori, il Parkinson, un filo di voce, e dimostrare che le sue attuali condizioni non siano al di sotto di quella soglia di dignità.

Bisogna anche spiegare se la sua “pericolosità possa considerarsi attuale in considerazione della sopravvenuta precarietà delle condizioni di salute”. Ma chiarirlo bene, con cura. Perché non basta dire che nel 2013 nel cortile di Opera minacciava di uccidere nell’ora d’aria, peraltro durante quel regime di 41 bis che dovrebbe garantire l’assoluto isolamento oggi  invocato da chi non vuole scarcerarlo. Sono passati 4 anni: il magistrato Felicia Marinelli, che ha in carico la questione, è in grado di dimostrare che in questo momento Totò Riina è ancora un uomo pericoloso? A questo domande per fortuna risponderà, in diritto, un Tribunale.

(manuela d’alessandro)

L’assegno divorzile nella nuova interpretazione della Cassazione

Con sentenza n. 11504/17 depositata il 10 maggio la 1° Sez. Civ. della Corte di Cassazione ha enunciato il principio che “….non è configurabile un interesse giuridicamente rilevante o protetto dall’ex coniuge a conservare il tenore di vita matrimoniale goduto in costanza di matrimonio. L’interesse tutelato con l’attribuzione dell’assegno divorzile è il raggiungimento della indipendenza economica e non, invece, il riequilibrio delle condizioni economiche degli ex coniugi”. Questa sentenza ha stravolto il precedente indirizzo della Cassazione che per molti anni aveva ritenuto che il presupposto per concedere l’assegno divorzile era costituito dalla inadeguatezza dei mezzi del coniuge richiedente a conservare un tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio, senza che fosse necessario uno stato di bisogno dell’avente diritto, il quale avrebbe ben potuto essere economicamente autosufficiente. Con la nuova pronuncia invece la Corte di Cassazione interpreta l’art. 5, c. 6, l. 898/1970 alla luce di nuovi parametri, applicando in via analogica la disciplina prevista per il contributo al mantenimento dei figli maggiorenni di cui all’art. 337 septies c.c..

Una volta sciolto il vincolo matrimoniale, il Giudice del divorzio – ritiene la Cassazione – richiesto dell’assegno divorzile – deve accertare la mancanza di mezzi adeguati dell’ex coniuge o, comunque, dell’impossibilità dello stesso di procurarseli per ragioni obiettive, a norma dell’art. 5 e 6  l. divorzio. In tale valutazione non bisogna svolgere un raffronto tra le condizioni economiche degli ex coniugi bensì solo circostanze relative alle condizioni del soggetto richiedente l’assegno. Diversamente si determinerebbe un arricchimento illegittimo dell’ex coniuge che lo richiede fondato esclusivamente sul fatto della mera preesistenza di un rapporto matrimoniale ormai estinto.

Una pronuncia, anche se tardiva, che pur riconoscendo il diritto del coniuge economicamente più debole e bisognoso ad un contributo economico, esclude che esso possa essere concesso sine die facendo riferimento al tenore di vita tenuto in costanza di matrimonio. Va aggiunto che la giurisprudenza di merito, in questi anni, ha cercato di contemperare l’applicazione del principio fino ad oggi applicato della Cassazione con una più rigorosa e restrittiva interpretazione della norma dell’art. 5 c.6 legge divorzio, applicando altri parametri di carattere più economicistico.

Fonte D & G 19.5

Giugno 2017

(Nota a cura avv. E. Oropallo)

Liquidazioni dei compensi degli Avvocati e rito applicabile

Con ordinanza n. 10679/17 depositata il 3 maggio, la Corte di Cassazione ha ribadito che le controversie per la liquidazione delle spese, onorari e diritti dell’avvocato nei confronti del proprio cliente di cui all’art. 28 l. n. 794/1942, così come modificato dal d. lgs. n. 150/2011, devono essere trattate secondo le regole del rito sommario di cognizione (art. 14 d. lgs n. 150/2011) anche laddove la domanda riguardi la sussistenza della pretesa “senza possibilità per il giudice adito di trasformare il rito sommario in rito ordinario o di dichiarare l’inammissibilità della domanda”.

Concludendosi dunque il giudizio con un provvedimento che ha forma di ordinanza ma valore di sentenza, il rimedio esperibile è l’impugnazione in appello.

A questa ordinanza segue una sentenza, sempre della Cassazione Civile (II Sez. Civ. n. 12847/17) depositata il 22 maggio che conferma in buona sostanza il principio che si debba far sempre ricorso al procedimento sommario collegiale sia che si verta sulla sola quantificazione del compenso sia che verta sull’accertamento della sua fondatezza giuridica. Ma, contrariamente a quanto affermato nella ordinanza sopra richiamata, la Cassazione questa volta ribadisce che il provvedimento con cui si definiscono tali controversie non è impugnabile mediante appello, ma esclusivamente con ricorso straordinario per cassazione, sconfessando il precedente orientamento (sentenza n. 19873/2015) secondo il quale il provvedimento sarebbe stato impugnabile in appello se si discuteva anche sull’an.. E’ auspicabile che il dissidio vada risolto da una decisione della SS. UU. della Cassazione, anche se sembra più corretta la tesi, una volta superata la dicotomia procedurale riguardante la natura sommaria o ordinaria del procedimento di cognizione, che il provvedimento non sia più impugnabile in appello.

Giugno 2017

Fonte D & G

(Nota a cura avv. E. Oropallo)

Notifica all’imputato ex art. 157,comma 8-bis c.p.p. condizioni per la dichiarazione di nullità

In allegato l’ordinanza di remissione alle Sezioni Unite per l’udienza del 22.06.2017 della questione molto dibattuta (orientamento in particolare sostenuto dalla Corte di Appello di Bologna) secondo il quale pur in presenza di una valida elezione o dichiarazione del domicilio la notifica per essere nulla deve essere tempestivamente eccepita (e su questo nulla quaestio) ma con un ormai tradizionale quanto inaccettabile commistione tra regole processuali e obblighi deontologici del difensore, si ritiene (da una parte della giurisprudenza di legittimità) che la nullità sia sanata se proprio il difensore non dimostra le circostanze impeditive alla conoscenza dell’atto da parte dell’imputato (questo anche quando nella nomina si sia specificato che il difensore rifiuta le notifiche ex art. 157, comma 8-bis e l’imputato abbia dichiarato e ribadito di non accettare qualunque domiciliazione ex lege). Una interpretazione “eversiva”, almeno a mio giudizio, della giurisprudenza di legittimità sulla questione – Cass. sez. un. 19602/2008 –  ma che si pone nel solco sempre più ampio di sterilizzare qualunque nullità processuale (la questione dell’esistenza di “nullità innocue” è stata affrontata da Cordero fin dal 1961 in un celebre lavoro) in nome di una malinteso (talvolta anche maliziosamente inteso orientamento di derivazione Cedu) che tende a fare predominare sempre e comunque esigenze efficentistiche e principi sostanzialistici. Un orientamento cui l’avvocatura dovrebbe opporsi con la massima energia (se passa occorre pensare ad un ricorso alla Consulta). Tra l’altro l’interpretazione “tradizionale” aveva raggiunto un ottimo punto di equilibrio, onerando l’imputato assistito da un difensore di fiducia a dichiarare o eleggere il domicilio per il processo. Di seguito la trascrizione del quesito di diritto sottoposto all’esame delle Sezioni Unite.

“Se la nullità della citazione a giudizio, che sia stata eseguita, ai sensi dell’art. 157, comma 8-bis, cod. proc. pen., presso il difensore di fiducia anziché nel luogo di dichiarazione o elezione di domicilio dell’imputato, debba considerarsi sanata qualora il difensore non indichi circostanze impeditive della conoscenza dell’atto da parte dell’imputato”.

Filippo Poggi

Valutazione del giudice e ammissione al patrocinio a spese dello Stato della persona offesa a prescindere da limiti di reddito

La Suprema Corte ha chiarito perfettamente che nei casi previsti dalla norma di cui all’art. 76 comma 4-ter del TU n. 115/2002 la persona offesa ha diritto ad essere ammessa al patrocinio a spese dello Stato di talché l’attività del giudice è meramente ricognitiva della qualità di persona offesa dai reati di cui agli artt. 572 o 612-bis del codice penale oltre ai reati in tema di libertà sessuale.

Filippo Poggi

La riforma dell’apppello penale (giurisprudenziale e legislativa)

Mi permetto di segnalare a tutti questo interessantissimo articolo del Prof. Massimo Ceresa – Gastaldo dell’Università Bocconi che ha una non comune lucidità anche prospettica nonché sul reale funzionamento del procedimento di formazione delle norme (il legislatore avalla quello che la Sezioni Unite decidono, questa però è una mia personale grossolana semplificazione).

Il Presidente Canzio si era assegnato un obiettivo e dal suo punto di vista lo sta realizzando perfettamente.

Intanto dalla Stampa di ieri pare che sul DDL di riforma del processo penale non sarà posto il voto di fiducia. Una bella notizia.

Filippo Poggi

Procura di Tivoli – Linee Guida in tema di intercettazioni dei difensori e garanzie ex art. 103 c.p.p.

Di sicuro interesse, al di là di alcune scelte opinabili, la circolare del Procuratore di Tivoli del 16.03.2017 che comunque disciplina in modo molto puntuale l’attività di captazione di conversazioni tra il difensore ed il proprio assistito (ma anche tra il difensore ed i congiunti dell’assistito etc.) nonché le responsabilità poste in capo alla polizia giudiziaria ed al Pubblico Ministero cui compete dare direttive precise in ordine alla menzioni delle conversazioni anche sul brogliaccio fino alla stessa inclusione o meno del verbale nel fascicolo.

Fillippo Poggi

Messa alla prova e competenza in caso di opposizione a decreto penale

In allegato la motivazione depositata ieri 04.05.2017 n. 21324 (Pres. Di Tomassi – Est. Talerico) della sentenza con cui la Prima Sezione Penale ha ritenuto che in caso di richiesta di messa alla prova formulata in sede di opposizione al decreto penale, la competenza a decidere appartenga al GIP e non al giudice del dibattimento. La giurisprudenza di legittimità non pare peraltro ancora pacifica in quanto nella motivazione la Suprema Corte si esprime consapevolmente in contrasto con altra pronuncia della stessa Prima Sezione n. 25867/2016 (Pres. Vecchio – Est. Cavallo) che aveva sostenuto l’opposto principio di diritto.

La soluzione accolta in questa pronuncia appare coerente con il sistema e preferibile anche perché consente al GIP di delibare su eventuali richieste di definizione del procedimento avanzate in via subordinata rispetto alla messa alla prova.

Filippo Poggi

Sospensione dell’ordine di esecuzione per pene non superiori a 4 anni – Ricorso della Procura di Milano

Devo alla non comune cortesia del Collega Avv. Cesare Corti del Foro di Milano che ha ottenuto la vittoriosa ordinanza del Tribunale in funzione di giudice dell’esecuzione, la copia del ricorso per cassazione presentata dal Pubblico Ministero.

In questo modo potremo già conoscere la maggior parte delle argomentazioni che saranno spese anche dai PM di altre sedi in occasioni di analoghi ricorsi al giudice dell’esecuzione.

La pronuncia milanese (e quelle della Cassazione che erano rimaste poco note) ha suscitato un certo scompiglio e mi risulta per certo che la Procura Generale di Bologna si sia orientata per non sospendere gli ordini di esecuzioni per pene comprese tra i 3 e i 4 anni di pena residua, non ritenendo convincenti le motivazioni delle pronunce finora rese.

Vediamo se è possibile ottenere ordinanze favorevoli anche nel nostro Foro e confidiamo che il ricorso del PM milanese (che non sembra esporre ragioni insuperabili) sia rigettato dalla Suprema Corte.

Filippo Poggi

Sospensione ordine di esecuzione – Trib. Milano 16.03.2017

Faccio seguito alla pronuncia della Prima Sezione Penale della Cassazione per allegare l’ordinanza del Tribunale di Milano 16.03.2017 (che a quella giurisprudenza si richiama) e che ha dichiarato la sospensione dell’ordine di esecuzione emesso dal PM per una pena espianda residua non superiore a 4 anni di pena detentiva.

L’ordinanza è stata impugnata dalla Procura di Milano e speriamo di avere presto la decisione della Cassazione magari nel suo massimo consesso, trattandosi di questione di speciale importanza e che attiene alla libertà personale di un numero verosimilmente assai rilevante di condannati.

Filippo Poggi

Sospensione dell’esecuzione della pena e limite della pena espianda

In questa sentenza della Prima Sezione Penale (che deve avere avuto un percorso un pò travagliato perché viene segnalata dal Massimario solo ora, pur essendo stata emessa il 31.05.2016 e depositata il 5.12.2016) viene affermato il principio di diritto secondo il quale quando il condannato debba espiare una pena anche residua non superiore a 4 anni di pena detentiva, anche come residuo di maggior pena, e possa richiedere l’affidamento in prova ai sensi dell’art. 47, comma 3-bis dell’Ordinamento Penitenziario, il PM debba emettere e sospendere l’ordina di esecuzione pur in mancanza di un formale adeguamento della norma di cui all’art. 656, comma 5 c.p.p. (che prevede la sospensione della pena quando la stessa non superi i 3 anni).

Nella motivazione estremamente stringata, si legge che siccome l’art. 656 richiama l’art. 47 nella sua interezza, una interpretazione “sistematica ed evolutiva” deve fare ritenere che il limite è stato appunto elevato a 4 anni per effetti dell’interpolazione del comma 3-bis ad opera del DL n. 143/2013.

In effetti l’art. 47, comma 3-bis Ord. Pen. condiziona l’affidamento in prova nel limite di 4 anni quando in condannato abbia serbato nell’anno antecedente “alla presentazione della richiesta” una condotta tale da far presumere che lo stesso non commetta altri reati.

Non sembra che tale valutazione, altamente discrezionale, possa essere rimessa al PM che quindi dovrà sospendere l’ordine di esecuzione per ogni pena non superiore a 4 anni (nel caso de quo la Cassazione ha annullato l’ordine di esecuzione e ordinato l’immediata liberazione del condannato).

Tale interpretazione è stata accolta anche dal Tribunale di Milano XI sezione penale 21.03.2017 – Est. Gurgo.

Va tenuto presente che anche la detenzione sofferta per errore nella emissione dell’ordine di esecuzione può essere titolo per la riparazione per ingiusta detenzione a seguito della interpolazione dell’art. 314 c.p.p. per effetto della pronuncia della Corte cost. n. 310/1996.

Non si può però nemmeno tacere una qualche preoccupazione per la sospensione, spesso per tempi lunghissimi dei Tribunale di Sorveglianza, della esecuzione di pena inflitte per reati sicuramente gravi.

Filippo Poggi

Giudizio abbreviato “secco” assoluzione e rinnovazione dell’istruttoria in appello

In allegato la sentenza della Sezioni Unite 19.01.2017 di ci si è molto parlato nell’interessante convegno della settimana scorsa a Cesena sul giudizio abbreviato e depositata lo scorso 14.04.2017 (il giorno successivo al convegno, purtroppo).

In ogni caso, la sentenza afferma con chiarezza il principio di diritto conseguenza del giudizio di colpevolezza oltre il ragionevole dubbio e la costituzionalizzazione del giusto processo, che anche nel giudizio abbreviato ‘secco’ in caso di assoluzione in primo grado ed impugnazione del PM il giudice di appello è tenuto ad assumere nel contraddittorio delle parti, l’esame delle fonti dichiarative su cui si è basata la sentenza impugnata, in considerazione che l’esame diretto delle fonti è considerato il modo più efficace per fare emergere la verità processuale (tra l’altro sembra di comprendere dal testo della motivazione. che in appello il teste debba essere sentito non dal giudice ma dalle parti direttamente secondo le modalità esame/controesame).

Le Relatrici del Convegno Consiglieri Mori e Calandra sulla base delle informazioni provvisorie, non hanno giustamente mancato di rilevare come la sentenza, apparentemente garantista a tutto tondo, possa anche risolversi in una clamorosa debacle per le aspettative dell’imputato che magari si era appunto deciso ad adire il rito sulla base di verbali si assunzioni di informazioni magari deboli e contraddittori quindi per questo attaccabili nel giudizio che si base su un materiale diverso ma che deve essere esaminato con lo stesso scrupolo (se non con uno scrupolo maggiore) delle risultanze probatorie dibattimentali.

In effetti l’unica soluzione appare quella affacciata “provocatoriamente” al Convegno ma sulla quale occorre riflettere senza preconcetti, per cui almeno in caso di giudizio abbreviato, sia precluso l’appello del PM a fronte della sentenza di assoluzione, restando ovviamente il ricorso per cassazione perfettamente in grado di emendare vizi di interpretazione della legge sostanziale o processuale.

Il Convegno ha fornito spunti di grandissimo interesse per tutti i soggetti processuali, individuando tipologie di reato alle quali sembra meglio attagliarsi nel caso ovviamente l’obiettivo della difesa sia l’assoluzione (processi molto tecnici come quelli di bancarotta o responsabilità medica o anche di omicidio stradale).

Sono state di grandissimo interesse gli spunti offerti alla discussione dal Collega Piero Monteleone in caso di giudizio abbreviato plurisoggettivo, nel caso in cui tutti gli imputati si siano sempre avvalsi della facoltà di non rispondere ed anche sulla base di questo si propenda per il rito, quando poi a rito ammesso uno o più imputati chiedano l’interrogatorio e facciano delle chiamate in correità imprevedibili che possono anche difficilmente essere contrastate in quanto l’esame è condotto dal giudice cui i difensori possono solo proporre domande ai dichiaranti.

La questione della mancanza di un terreno tendenzialmente immodificabile sulla quale basare l’accesso al rito è vanificato dall’art. 441, comma 5 c.p.p. che può essere inteso dai giudici con le sensibilità più diverse e che consente sostanzialmente senza limiti di integrare la base decisoria.

Insomma l’unica garanzia certa per l’imputato resta solo quella che nel giudizio abbreviato “secco” il PM non può modificare l’imputazione, la quantificazione della pena e la applicazione dello sconto effettivo del 1/3 è questione assai opinabile che solo in parte può indirettamente essere sindacata in appello.

Un Convegno di grandissimo interesse proprio perché ci ha prospettato il giudizio abbreviato come è attualmente disciplinato in questo momento ma con domande che per ora restano con risposte molto parziali o senza risposta.

Filippo Poggi

Pagamento della provvisione e notifica del disposito della sentena penale

In questa interessante pronuncia delle Terza Sezione Civile n. 6022/2017 viene affrontata e risolta una questione che spesso mi ero posto senza trovare risposta: nel caso di sentenza penale di condanna che contenga anche una provvisionale immediatamente esecutiva, l’esecuzione forzata può essere iniziata sulla base della notifica del solo dispositivo (come nel rito del lavoro) senza attendere il deposito delle motivazioni. Anzi non è neppure necessaria tale notifica se l’imputato è presente o deve considerarsi presente alla lettura della sentenza.

Filippo Poggi