Esercizio abusivo della professione ed altro

In allegato il testo (estratto) della Legge 11.01.2018 n. 3 di riforma delle Professioni Sanitarie che entrerà in vigore il prossimo 15.02.2018.

Nel testo della Legge (art. 12) viene molto opportunamente riscritto l’intero articolo 348 del codice penale che reprime l’esercizio abusivo di qualsiasi professione prevedendo adesso pene adeguatamente deterrenti della reclusione da 6 mesi a 3 anni e della multa da 10.000 a 50.000 oltre a misure di sicurezza della confisca, pubblicazione della sentenza e trasmissione della stessa al competente Ordine professionale (tra cui appunto quelli sanitari in cui tutti i precedenti Collegi tra cui quello degli Infermieri vengono elevati ad Ordini).

Il delitto di omicidio colposo si arricchisce di una nuova aggravante per cui se il fatto è commesso nell’esercizio abusivo di una professione o di un’arte sanitaria la pena edittale viene elevata da 3 a 10 anni di reclusione. Inasprimenti di pena anche per le lesioni colpose commesse nelle stesse circostanze.

Viene introdotta (art. 14) una circostanza aggravante comune all’art. 61 del codice penale, segnatamente il nuovo numero 11-sexies che prevede un inasprimento di pena fino a 1/3 per tutti i delitti non colposi commessi in danno di persone ricoverate in strutture sanitarie, socio-sanitarie (anche semi-residenziali), socio-educative pubbliche e private.

Infine sono previste nuove pene in materia di corretta conservazione e distribuzione dei farmaci.

Filippo Poggi

Legittimo impedimento del difensore per concorrente impegno professionale

In allegato un recentissima ordinanza del Tribunale di Forlì 12.1.2018 che ha accolto la richiesta del difensore di rinvio del processo per legittimo impedimento.

Il caso: il difensore dell’imputato per il reato di cui all’art. 612-bis avanti il Tribunale monocratico di Forlì ha chiesto che venisse riconosciuto il suo legittimo impedimento a comparire in quanto impegnato nella stessa giornata avanti il Tribunale collegiale di Rimini nella difesa di un imputato accusato di violenza sessuale.

Nel procedimento avanti il Tribunale di Rimini l’imputato era assistito da due difensori come risultava dal verbale di udienza allegato alla istanza di rinvio.

Nell’ordinanza il Tribunale di Forlì effettuando una lettura non formalistica della norma (anche se in contrasto con la maggioritaria giurisprudenza di legittimità) ha osservato che l’impegno professionale avanti il Tribunale di Rimini doveva considerarsi prevalente in quanto fissato per l’esame di un consulente tecnico e la discussione finale (mentre il processo forlivese era fissato per completare l’assunzione delle testimonianze dei testi del PM).

Quanto alla circostanza che nel processo avanti il Tribunale di Rimini l’imputato fosse assistito da due difensori di fiducia, il Tribunale ha osservato che “non si è in condizioni di valutare i motivi dell’assenza del codifensore avv. VP ma che tuttavia deve tenersi conto della presenza del solo avv. V. ai fini delle incombenze avanti al Tribunale collegiale”.

Per completezza va detto che tanto il reato di cui all’art. 609-bis che quello di cui all’art. 612-bis devono essere trattati con priorità ai sensi dell’art. 132 disp. att. c.p.p.

Una ordinanza che merita piena condivisione, avendo affermato il principio della necessaria presenza della difesa tecnica valutando nel merito la gravosità dei due impegni professionali, senza limitarsi a prendere atto della mera presenza di due difensori in uno dei due procedimenti. In conclusione si può solo osservare che meglio sarebbe che le istanze di legittimo impedimento venissero immediatamente (quantomeno nei 5 gg dal deposito della richiesta) decise dal giudice anche fuori udienza, come stabilito da alcune sentenze di legittimità nell’interesse delle parti, dei difensori e dei testimoni chiamati a deporre.

Filippo Poggi

Dichiarazione o elezione del domicilio e notifica presso il difensore di fiducia

In questa sentenza della Sezioni Unite N. 58120/2017 di cui è stata appena depositata la motivazione lo scorso 29.12.2017, è stato definitivamente cassato quell’orientamento giurisprudenziale che nel caso di nomina di difensore di fiducia riteneva che la notifica del decreto di citazione a giudizio potesse essere effettuata presso il difensore anche qualora l’imputato avesse dichiarato o eletto il domicilio ai sensi dell’art. 161 c.p.p. addirittura anche nel caso in cui il difensore avesse regolarmente manifestato la sua volontà di non accettare notificazioni per conto dell’assistito nei termini di cui all’art. 157, comma 8-bis c.p.p.

La sentenza è stata deliberata su conclusioni conformi dell’Avvocato Generale che aveva richiesto l’annullamento della pronuncia della Corte di Appello di Bologna.

La sentenza che merita piena condivisione, tra l’altro sembra frenare sul tanto inopportuno quanto metodologicamente scorretto, indirizzo secondo il quale le norme processuali potrebbero anzi dovrebbero essere interpretate anche alla luce di norme deontologiche forensi, all’evidenza dettate per altri fini (v. sentenze sul cd abuso del processo e sulla sanatoria della nullità in caso di mancata notifica del decreto di citazione ad uno dei due difensori di fiducia qualora l’altro non abbia eccepito formalmente tale omessa notifica).

Filippo Poggi

Notifica al difensore vie Pec e dichiarazione del domicilio

In allegato alla presente, la  motivazione di una sentenza appena depositata il 21.12.2017 dalla Terza Sezione Penale con la quale, mi pare, si demolisce definitivamente un orientamento giurisprudenziale che aveva avuto una certa fortuna presso la Corte di Appello Felsinea.

La questione verteva intorno alla possibilità di notificare il decreto di citazione in appello presso il difensore anche quanto l’imputato avesse regolarmente dichiarato il domicilio altrove, in totale contrasto con gli approdi cui erano giunti le Sezioni Unite nel 2006.

La questione ora è stata nuovamente sottoposta alle Sezioni Unite che con la sentenza del 22.06.2017, Tuppi (la motivazione non è stata ancora depositata) hanno ribadito la nullità di tale notifica presso il difensore, anche di fiducia, quando vi sia un domicilio dichiarato senza che debba accollarsi alcun onere allo stesso difensore circa la mancata conoscenza dell’atto da parte dell’assistito.

In questa pronuncia della Terza Sezione Penale, resa il 12.4.2017, quindi ben prima dell’intervento delle Sezioni Unite, si afferma che in caso il difensore di fiducia abbia regolarmente ricusato di volere ricevere notificazioni per conto dell’assistito ai sensi dell’art. 157, comma 8-bis c.p.p., la notifica effettuata via Pec al difensore non può in alcun modo essere considerata una tacita rinuncia a detta dichiarazione, in quanto la modalità stessa della notifica impedisce qualunque opposizione da parte del difensore.

Non è chiaro, almeno a  me, perché dall’annullamento della sentenza di appello consegue il rinvio della causa alla Corte di Appello in altra composizione personale, invece che ad altra sezione della Corte (ma forse si tratta di un refuso).

E con questa annosa e anche abbastanza spiacevole questione finalmente composta dalla giurisprudenza di legittimità colgo l’occasione per augurare a tutti Buon Anno Nuovo!

Filippo Poggi

Iscrizione nel registro notizie di reato e vigilanza del Procuratore della Repubblica

In allegato la Circolare del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Roma in tema di corretta procedura di iscrizione della notizia di reato.

La Circolare in questione che da alcuni è stata salutata positivamente ed è stata resa necessaria anche dalla modifica ordinamentale che rende il Procuratore della Repubblica responsabile “dell’osservanza delle disposizioni relative all’iscrizioni delle notizie di reato”, con conseguente quindi possibile responsabilità disciplinare e valutazione in sede di riconferma dell’incarico direttivo.

Nella Circolare vengono puntualmente riportati gli arresti della giurisprudenza della Cassazione specie a sezioni unite, e sembra esaltarsi il potere-dovere del PM di valutare specifici elementi indizianti prima di procedere ad inscrizione che deve reputarsi tutt’altro che automatica e dovuta per il solo fatto che all’Ufficio di Procura pervenga una denuncia anche della p.g. o un querela del privato (questo, si afferma, anche in una ottica garantista e di tutela della reputazione comunque lesa anche dalla iscrizione).

Tuttavia non tutto appare convincente e garantista nelle disposizioni del Procuratore di Roma, ottimo esempio la colpa medica e la non necessità di iscrivere i sanitari che non siano già raggiunti da specifici elementi indizianti, i quali però perdono per sempre (scusate se è poco) la possibilità di intervenire anche con in consulenti all’accertamento tecnico irripetibile.

Per non dire della durata delle indagini preliminari che potrebbe subire indebiti prolungamenti, mentre non sembra approfondita la parte della normativa che impone al PM di aggiornare sempre il registro della notizie di reato quando muti la qualificazione giuridica del fatto o questo risulti diversamente circostanziato (nella prassi questi adempimenti sembrano rinviati alla emissione dell’avviso 415-bis con contestuale ordine alla segreteria di aggiornare le iscrizioni).

Insomma non è tutto oro quello che luccica e almeno a mio parere non se ne esce finché il Legislatore non rimetterà al giudice la possibilità di sindacare le iscrizioni nel registro delle notizie di reato, vista la chiusura sul punto della Sezioni Unite.

Cari saluti a tutti a auguri di Buon Natale.

Filippo Poggi

Vedova perseguitata dal cognato che la reclama in sposa: riconosciuto lo status di rifugiata

La Corte di Cassazione, Sez. I Civ. con sentenza n. 28152/17 del 24.11 u.s., ha riconosciuto lo status di rifugiata ad una straniera che era scappata dal suo paese, la Nigeria, per sfuggire ad una tradizione che la obbligava a sposare il fratello del marito defunto. Nel caso esaminato la donna si era rifugiata in Italia facendo richiesta di protezione, respinta prima dal Tribunale e poi dalla Corte d’Appello che hanno ritenuto irrilevanti le disavventure da lei vissute in patria. Tra l’altro la donna aveva raccontato di essersi rifiutata di sposare il fratello del marito per cui era stata allontanata dalla sua abitazione, privata della potestà genitoriale, spogliata dalle sue proprietà e perseguitata dal cognato che reclamava il suo “diritto” di averla in sposa. La Corte di Cassazione ha ritenuto evidente la “persecuzione” subita in patria dalla donna, in quanto donna per cui, dice la Corte, “ci troviamo di fronte ad un clamoroso episodio di violenza nei confronti delle donne com’è altrettanto evidente il timore di una pesecuzione personale” in caso di ritorno della nigeriana in patria.

Dicembre 2017

Fonte D & G 27/11

(Nota a cura avv. E. Oropallo)

Il foglio di via obbligatorio viola l’art. 8 Cedu se impedisce l’assistenza del padre malato

E’ quanto sancito dal TAR Umbria, sez. I sent. n. 720/17 del 20.11 ritenendo che “l’art. 8 tutela la privacy, in senso lato comprendente anche la serenità e l’unità familiare per cui il rimpatrio con foglio di via obbligatorio nel Comune di residenza di un uomo trovato in possesso di eroina, visti i suoi precedenti penali e di polizia, è una misura arbitraria e sproporzionata che viola la norma di cui all’art. 8 Cedu”. Nel caso l’uomo, residente a Roma, si trovava a Terni per assistere il padre gravemente ammalato, ricoverato in ospedale per un intervento chiururgico. Trovato in possesso di eroina, senza considerare la ragione più che legittima di assistere il padre malato gravemente, se ne disponeva il rimpatrio a Roma con foglio di via obbligatorio sulla base di un giudizio di pericolosità sociale.

Il provvedimento veniva impugnato innanzi al TAR il quale già in via cautelare aveva ritenuto fondato il ricorso disponendo la sospensione del provvedimento poi annullato. Ha ritenuto il TAR che, “pur tenendo conto degli ampi margini di discrezionalità di cui gode la P.A., essi non sfuggono al sindacato giurisdizionale sotto i profili dell’irragionevolezza, dell’incongruenza della motivazione e del travisamento della realtà attuale” (Tar Umbria 412/12; Cass. n. 48684/15).

Il diritto all’assistenza e l’unità familiare sanciti dall’art. 8 Cedu prevalgono su tutto e non è soggetto a restrizione salvo che essa abbia una valida base legale, prevista da una specifica norma di legge e per quanto sia strettamente necessario. Il diritto di assistere un proprio familiare non può essere sacrificato se non in casi specificamente disposti dalla legge. E’ charo che, ignorare questa esigenza del ricorrente, costituisce una interferenza illecita ed arbitraria nella sua sfera familiare, “non avendo l’autorità di pubblica sicurezza valutato la particolare situazione familiare e di salute del padre del ricorrente nemmeno in seguito –giova evidenziare – a quanto disposto dall’adito Tribunale in sede cautelare”.

Dicembre 2017

Fonte D&G

Nota a cura avv. E. Oropallo

La traduzione del decreto di espulsione non basta per garantire il diritto alla partenza “volontaria”

Lo ha stabilito la Corte di Cassazione con sentenza n. 28158/17 del 24.11 u.s. in quanto il decreto di espulsione, pur tradotto nella lingua ufficiale dello Stato di appartenenza del cittadino extracomunitario, non garantisce la conoscibilità di quanto previsto dall’art. 15 c. 5.1 ossia la facoltà per il cittadino di poter lasciare spontaneamente il territorio dello Stato entro uno specifico termine. La Suprema Corte, nel caso esaminato, ha ritenuto violato il diritto di opzione riconosciuto dall’art. 15 comma 5.1 d.lgs. n. 286/1998 che prevede che lo straniero abbia la facoltà di richiedere “un termine per la partenza volontaria, mediante schede informative plurilingue”. Insomma l’interessato non è stato messo in grado di esercitare in concreto un proprio diritto che è stato violato dalla mancata informativa che gli doveva essere fornita.

Fonte

D&G 27.11.2017

Nota a cura avv. E. Oropallo

Processo mladic: ultimo atto del tribunale penale internazionale

Il Tribunale Penale Internazionale dell’Aja per i crimini nella ex Jugoslavia ha condannato all’ergastolo nei giorni scorsi il generale Rakto Mladic ex comandante in capo dell’esercito serbo-bosniaco per genocidio e crimini contro l’umanità commessi durante la guerra che insanguinò il territorio della ex Jugoslavia (1992-1995). In particolare, Mladic era accusato del massacro compiuto a Srebrenica di migliaia di civili. Il Tribunale venne istituito dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU con la risoluzione n. 808 del 22 febbraio 1993 per giudicare i colpevoli di gravi violazioni del diritto umanitario internazionale commesse nel territorio della ex Jugoslavia dal 1991 in poi. Prima di Mladic, il Tribunale già aveva condannato il leader serbo-bosniaco Karadzic, – all’epoca presidente della Repubblica Serba di Bosnia-Erzagovina – che, dopo 12 anni di latitanza, era stato arrestato e condannato a 40 anni di carcere sempre per il genocidio di Srebrenica nel corso del quale furono massacrati tra gli 8.000 e i 12.000 bosniaci mussulmani (la cifra precisa non è stata mai accertata) in quella che al momento era stata dichiarata dall’ONU come zona protetta che si trovava sotto la tutela di un contingente olandese e dei caschi blu.

Molte sono ancora le zone d’ombra, in quanto non è stato chiarito perché i caschi blu e il contingente olandese non intervennero: ufficialmente, si è giustificato il mancato intervento perché le truppe ONU erano scarsamente armate per cui non potevano far fronte da sole alla forze serbe. Ma c’è da ricordare che l’eccidio di civili inermi si prolungò per cinque giorni senza che i vertici militari delle forze ONU intervenissero. Addirittura i caschi blu decisero di collaborare a separare gli uomini dalle donne per poter tenere la situazione sotto controllo  per cui nel 1996 il governo olandese ordinò un’inchiesta per stabilire il grado di responsaiblità dei soldati olandesi impegnati nelle operazioni nell’ex Iugoslavia. Il Tribunale olandese ebbe ad accertare la responsabilità penale e civile dei soldati olandesi solo nel caso di tre cittadini bosniaci cui era stato negato il permesso di essere ospitati nella base dei soldati ONU. Oltre alla condanna dei due responsabili diretti del genocidio, era stato giudicato dal Tribunale anche il Presidente serbo in carica all’epoca dei fatti Milosevic che morì però prima della conclusione del processo. Il Tribunale Penale Internazionale – che va distinto dalla Corte Penale Internazionale- è un organismo giudiziario delle Nazioni Unite che – una volta esaurito il suo compito – a fine novembre chiuderà i battenti. La Corte penale internazionale – che ha sede all’Aja – è stata istituita con il Trattato di Roma nel luglio del 1988 – sottoscritta fino ad oggi da 132 Stati; essa ha giurisdizione internazionale e ha potere di giudicare individui (e non Stati) che si sono resi responsabili di crimini di guerra, genocidio, crimini contro l’umanità, commessi sul territorio di uno Stato membro o da un cittadino di uno Stato aderente al Trattato.

Certo, a distanza di pochi anni da quegli avvenimenti, anche se si può dir riconosciuta, sulla scorta delle diverse sentenze, la responsabilità penale e morale degli imputati, non si può ancora parlare di pacificazione dell’area balcanica, apparentemente tranquilla, ma dove ancora sono forti i contrasti etnici e religiosi.

Dopo l’adesione della Croazia all’UE tutti i paesi balcanici hanno presentato richiesta di adesione all’EU. Sarebbe auspicabile, per superare i conflitti, che gli Stati balcanici potessero entrare a far parte dell’UE in modo da ritrovare quel clima di collaborazione e di reciproca tolleranza che ancora oggi può considerarsi ancora lontano dalla realizzazione.  

Novembre 2017

(Avv. Eugenio Oropallo)

L’appello non è un mezzo di impugnazione a critica vincolata

Gli artt. 342 e 434 c.p.c. nel testo formulato dal d.l. 22.6.2012 n. 83 convertito con modificazione nella l. 7.8.2012 n. 134, si legge in una nota redatta dall’avv. Summa nella rivista “Diritto & Giustizia del 17.11.2017”, vanno interpretati nel senso che l’impugnazione deve contenere una chiara individuazione delle questioni e dei punti contestati della sentenza impugnata e, con essi, delle relative lagnanze, affiancando alla parte volitiva una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice, così come afferma la Corte di Cassazione a Sezz. Un. nella sent. n. 27199/17 del 16.11 u.s..

Secondo le Sezz. Un. la riforma del 2012 ha escluso che l’atto di appello – a differenza delle impugnazioni a critica vincolata – debba rivestire particolari forme sacramentali o che debba contenere la redazione di un progetto alternativo di sentenza da contrapporre a quella di primo grado.

Il richiamo – contenuto negli artt. 342 e 434 c.p.c. – alla motivazione dell’atto di appello non implica che il legislatore abbia inteso porre a carico delle parti un onere paragonabile a quello del Giudice nella stesura di un provvedimento decisorio. All’appellante viene richiesto solo di porre il Giudice superiore in condizione di comprendere con chiarezza qual’è il contenuto della censura proposta.

Novembre 2017

(Nota a cura avv. E. Oropallo)

Avvocato arriva in anticipo ma l’udienza già è stata celebrata

Strana ed insolita vicenda questa che si è trovata ad esaminare la Suprema Corte.

In un processo per spaccio di droga avanti la Corte d’Appello il difensore si presenta alle 10:45, 15 minuti prima dell’orario previsto per l’udienza, fissata alle 11:00. Ma, in anticipo rispetto all’orario previsto, la Corte d’Appello ha già svolto il processo, pur in assenza del difensore di fiducia, con la lettura del dispositivo della sentenza – poi impugnata in Cassazione – alle ore 10:30. La Cassazione accoglie il ricorso dell’imputato (Cass. III Sez. Pen. sent. n. 51578/2017 del 13.11) affermando la “palese illegittimità della celebrazione del processo a suo carico ante tempus”. La Corte ha stabilito che si tratta di nullità assoluta ex art. 179 c.p.p. essendo stato il processo celebrato in ora diversa da quella fissata, determinando così “una lesione ineliminabile del diritto di difesa dell’imputato”. Sembra incredibile, eppure è successo, che né i Giudici della Corte d’Appello, né il P.M., né il difensore di ufficio nominato al posto di quello di fiducia, si siano resi conto dell’errore commesso. Annullata la sentenza impugnata, la Corte rimette gli atti ad altra sezione della Corte d’Appello, così come prescrive la legge, per un nuovo giudizio! Meno male….

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D & G 14.11.2017

(Nota a cura avv. E. Oropallo )

Condannato per le nozze virtuali con una straniera

IL FATTO

Un uomo si rende disponibile a unirsi in matrimonio con una donna albanese e prendere in locazione a proprio nome un’abitazione dove farla risiedere, assieme ad altre due donne, di nazionalità rumena, ottenendo in cambio “la disponibilità di una casa e di un’autovettura” grazie ai “protettori stranieri delle donne che ne favorivano e ne sfruttavano la prostituzione”. Matrimonio di interesse, dunque, con la consapevolezza del marito virtuale di aver favorito “la presenza illegale in Italia” della donna che è risultata essere sua moglie. Decisione conforme sia dal Tribunale in primo grado che della Corte d’Appello con condanna dell’imputato a quattordici mesi di reclusione “per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Sentenza confermata dalla Corte di Cassazione. (Corte Cass. Sez. I, penale, sentenza n. 52460/17 del 16.11)”.

Fonte

D & G 17.11.2017

(Nota a cura avv. E. Oropallo)

 

Va garantito il contraddittorio allo straniero trattenuto nel CIE

Con ordinanza del 13.11 n. 26803/17 la Cassazione Sez. IV Civile ha confermato che, nel procedimento di convalida del provvedimento di trattenimento nel CIE, debba esssere assicurata la presenza dello straniero. Nel caso esaminato dalla Suprema Corte emerge che lo straniero non aveva partecipato all’udienza perché sottoposto a trattamento sanitario. L’assenza dell’interessato all’udienza fissata, in quanto giustificata, impedisce al Giudice di procedere alla convalida del provvedimento, in quanto la partecipazione del difensore e l’audizione dell’interessato sono garanzia del contraddittorio indispensabili anche senza la richiesta dell’interessato.

Fonte

D&G 14.11.2017

Nota a cura avv. E. Oropallo

La mediazione nell’UE

Il Parlamento europeo ha approvato il 12.9.2017 una risoluzione sull’attuazione della direttiva 2008/52 del Parlamento europeo e del Consiglio relativa a determinati aspetti della mediazione in materia civile e commerciale.

Constata il Parlamento che gli obiettivi enunciati all’art. 1 della direttiva sulle mediazioni non sono stati raggiunti, visto che la mediazione è utilizzata mediamente in meno dell’1% dei casi nella maggior parte degli Stati membri.                     

Un vero e proprio fallimento, dunque, che riflette la scarsa fiducia che i cittadini e la classe forense ripongono in questo strumento extra-giudiziale per la risoluzione di conflitti in materia civile e commerciale.  Una volta tanto, questa volta il Parlamento ha apprezzato la scelta italiana che ha utilizzato la mediazione in misura superiore a sei volte rispetto all’Europa.

Risultato, come si legge in un commento apparso su D&G del 3 novembre scorso, che deriva sicuramente dalla scelta italiana di rendere obbligatoria la mediazione per un certo numero di materie (art. 5 comma 1 bis d. lgs. n. 28/2010) ma anche dalla scelta di una parte della giurisprudenza di applicare le sanzioni per la mancata partecipazione al procedimento di mediazione. Va riconosciuto che questo procedimento viene visto dalla gran parte dei giuristi come una formale strozzatura cui bisogna piegarsi per accedere alla giustizia ordinaria, sapendo in anticipo che la mediazione si risolverà nel 99% dei casi in un nulla di fatto.

Purtroppo, il legislatore ha optato per una soluzione che, se da una parte frena il ricorso immediato al Giudice, non fa che rinviarlo di qualche mese facendo aumentare i costi per l’utente che agisce per veder riconosciuto un proprio diritto.

Uno strumento dunque che non serve neppure a limitare l’accesso alla giustizia ordinaria. Un’occasione perduta per il legislatore per velocizzare i tempi della giustizia.

In fondo, se in Italia sono state espresse molte critiche alla scelta della mediazione, resa obbligatoria per legge, bisognerà pur tener conto del fallimento della mediazione negli altri paesi dell’UE. Dubbi, ne esprime pure la Commissione quando sottolinea proprio nella risoluzione che “la questione o meno dell’obbligatorietà o meno della mediazione è controversa”. In realtà, il progetto iniziale era proprio quello di una mediazione “volontaria”. Il Parlamento europeo rileva che sia necessario un cambio di mentalità che favorisca il ricorso alla mediazione.

Purtroppo, lo stato della giustizia in Italia è tale da aver progressivamente abbassato la fiducia dei cittadini.

Sarà la carenza di investimenti e la difesa di posizioni di rendita ma, se il panorama non muta, è chiaro che nessuna riforma potrà incidere su un sistema giudiziario come il nostro che inceppa gravemente anche il funzionamento dell’economia.

La tempistica della risoluzione delle dispute commerciali vede infatti l’Italia al penultimo posto nella classifica OCSE: peggio di noi solo la Grecia. L’inefficienza della giustizia ha un costo pesante. Ovviamente, parliamo della giustizia ordinaria.

La soluzione adottata dal legislatore, si è dimostrata fallace perché è sul processo che bisogna lavorare, eliminando le sacche di inefficienza del personale burocratico, destinando nuove risorse al settore, e soprattutto chiedendo il rispetto dei termini giudiziari anche da parte della magistratura. In qualche Tribunale, come quello di Torino, è stato possibile eliminare l’arretrato con semplici misure organizzative, utilizzando meglio le risorse umane. Certo, questo significa avere la totale collaborazione sia degli avvocati ma anche dei magistrati. La scelta del processo telematico costituisce senz’altro un passo avanti in questa direzione ma non basta per cui ci attendiamo che il legislatore, una volta tanto, voglia implementare anche il ruolo della magistratura se si vuole recuperare la fiducia dei cittadini nella giustizia.

Novembre 2017

Fonte D & G

Nota a cura avv. Oropallo

Autismo post vaccinazione

Con ordinanza n. 18358/17 depositata il 25.7.2017 la Cassazione – VI Sez. Civ. – ha rigettato definitivamente la richiesta di indennizzo avanzata dal genitore di un minore nei confronti del Ministero della Salute a seguito delle gravi ripercussioni subite dal figlio a causa, secondo il genitore, della vaccinazione “antipolio Sabin” a cui era stato sottoposto. Secondo il ricorrente il figlio si sarebbe ammalato di una grave forma di autismo a causa della terapia vaccinale a lui somministrata. Sia in Tribunale che in appello la richiesta veniva respinta in quanto la perizia svolta aveva escluso sussistere un nesso di causalità tra la vaccinazione effettuata e la malattia successivamente a lui diagnosticata. A chiudere definitivamente la battaglia legale ha provveduto la Cassazione che ha escluso qualsiasi ipotesi di indennizzo a favore del genitore perché non vi erano i presupposti per considerare l’autismo, che ha colpito il ragazzo, procurato dalla vaccinazione antipolio, facendo proprie le conclusioni del consulente tecnico che ha  precisato che “la scienza medica non consente allo stato di ritenere superata la soglia della mera possibilità teorica della sussistenza di un nesso di causalità tra vaccino e patologia”.

Sentenza giusta, che mette a tacere tutti i dubbi spesso sollevati nell’opinione pubblica da false e pericolose voci diffuse soprattutto in rete mettendo in discussione la necessità dei vaccini che hanno debellato tante malattie che nel passato falcidiavano milioni di bambini.

Basta appunto ricordare il vaccino contro la polio che rendeva storpi – nel migliore dei casi – i bambini che vi sopravvivevano. Certo, la scienza medica non nega che in qualche caso la somministrazione del vaccino possa avere degli effetti indesiderati ma si tratta di casi limitati che non possono mettere in discussione la loro efficacia.

Novembre 2017

Nota a cura avv. E. Oropallo

Responsabilità professionale dell’Avvocato

Una recente ordinanza della Corte di Cassazione (III Sez. Civ. ordinanza n. 25807/17 depositata il 31 ottobre) ha stabilito che “il cliente che richieda al proprio avvocato il ristoro dei danni subiti a seguito della mancata impugnazione della sentenza di primo grado non può limitarsi a dedurre l’astratta possibilità di riforma della decisione in seconde cure”. Giusto il principio, ci sembra che nel caso esaminato la Corte sia stata eccessivamente benevola nei confronti del professionista.

Nel caso esaminato infatti risulta più che evidente la pesante responsabilità professionale dell’avvocato cui si erano rivolti gli eredi di un uomo deceduto a seguito di un sinistro stradale con un’auto rimasta sconosciuta per convenire in giudizio il Fondo di Garanzia. L’avvocato però si era reso gravemente inadempiente, non presenziando a numerose udienze, aveva rinunciato ad escutere un teste addotto dagli attori e non aveva svolto attività difensiva, omettendo anche di presentare scritti difensivi nel termine concessogli dal giudice per cui vi era stato rigetto della domanda.

Sentenza poi passata in giudicato non avendo l’avvocato informato parte attrice della possibilità di proporre appello. Il Tribunale adito dai clienti per ottenere la condanna dell’avvocato e il risarcimento dei danni subiti rigettavano la domanda ritenendo non sussistere il nesso di causalità tra la condotta del difensore e i danni lamentati per l’avvenuta definitività della sentenza. Sentenza confermata in appello.

La Corte di Cassazione confermava la sentenza della Corte di merito affermando appunto che il cliente in un caso del genere “deve dimostrare l’erroneità della prima pronuncia oppure produrre nuovi documenti o ulteriori mezzi di prova idonei a fornire la ragionevole certezza che il gravame sarebbe stato accolto”. Forse sarà stata anche l’errata impostazione del ricorso ad aver fatto decidere la Cassazione in tal senso: certamente, non ha tenuto conto che proprio le gravi carenze difensive manifestatesi nel procedimento di primo grado rendevano difficilmente censurabile la sentenza di primo grado.

Insomma un comportamento censurabile ampiamente quello del professionista sul quale la sentenza è stata del tutto silente.

Nel campo professionale gravi omissioni valgono quanto e forse molto di più di una scarsa conoscenza professionale per decidere l’esito di un giudizio per cui non ci sembra proprio corretto che vadano sul piano formale coperte e giustificate le pesanti responsabilità di un professionista cui si affida un cittadino per veder riconosciuto il proprio diritto.

Novembre 2017

Fonte D&G 02.11.2017

(Avv. E. Oropallo)

Introduzione del reato di tortura nel codice penale

Nel luglio scorso, dopo un lungo iter parlamentare, il Parlamento italiano ha approvato la legge n. 110 del 14 luglio 2017 che introduce il delitto di tortura nell’ordinamento italiano. La legge, pubblicata sulla G.U. n. 166 del 18.7.2017, introduce gli artt. 613-bis e 613-ter nel codice penale. In base al primo comma, chiunque, agendo con crudeltà, attraverso violenza o minacce gravi cagioni “acute sofferenze fisiche” o un “verificabile trauma psichico” ad una persona privata della sua libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza, ovvero che si trovi in condizioni di minorata difesa, è punito con la resclusione da quattro a dieci anni. Se i fatti sono commessi da un pubblico ufficiale o da un incaricato di pubblico servizio, con abuso del suo potere o in violazione dei doveri inerenti alla sua funzione, la pena della reclusione passa da cinque a dodici anni.

L’articolo prevede altresì, un aumento della pena di 1/3 nel caso in cui se ne deriva una lesione personale grave o della metà se ne deriva una lesione personale gravissima.

Se dai fatti deriva la morte quale conseguenza non voluta, la pena è della reclusione di anni 30; se il colpevole cagiona volontariamente la morte, la pena è l’ergastolo.

L’art. 613-ter prevede l’ipotesi del pubblico ufficiale o dell’incaricato di un pubblico servizio il quale nell’esercizio delle proprie funzioni, istiga in modo concretamente idoneo altro pubblico ufficiale o altro incaricato di un pubblico servizio a commettere il delitto di tortura, se l’istigazione non è accolta ovvero se l’istigazione è accolta ma il delitto non è commesso, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni.

I partiti di destra hanno espresso la loro insoddisfazione accusando la nuova legge “di criminalizzare le forze dell’ordine”mentre la sinistra italiana e il Mdp hanno parlato di una legge “inefficace”. Sia pure con ritardo, va detto che la legge viene a colmare una grave lacuna nel nostro ordinamento che si adegua così all’ordinamento internazionale ma con limitazioni tali da rendere inapplicabile la legge ai recenti casi di tortura alcuni dei quali tristemente famosi verificatisi nella caserma di Bolzaneto o della scuola Diaz. Fatti per i quali comunque la Corte di Strasburgo ha condannato l’Italia per le violenze alla Diaz proprio perché l’Italia non aveva ancora introdotto nell’ordinamento il reato di tortura. In effetti, i responsabili di quei fatti vergognosi che hanno visto le forze di polizia infierire su centinaia di giovani, sono stati condannati alcuni in base alla norma penale in vigore ed altri purtroppo si sono sottratti al giudizio perché il reato si era prescritto, laddove, l’esistenza di un reato specifico – che è quello commesso dal pubblico ufficiale – avrebbe prodotto pene ben più gravi per gli autori del fatto. Un ritardo di trenta anni, tra omissioni e negligenze, rispetto alla Convenzione delle N.U. del 1984, sottoscritto quattro anni dopo dall’Italia.

Come ha rilevato Luigi Manconi, presidente della Commissione dei diritti umani e primo firmatario del disegno di legge risalente al marzo 2013, il testo licenziato dal Parlamento ha stravolto il testo originario. Un “testo impresentabile”, distante e incompatibile con la Convenzione internazionale contro la tortura – così scrivono in una nota congiunta Amnesty International e l’associazione Antigone in quanto questo nuovo testo sarebbe difficialmente applicabile in quanto limita il reato ai soli comportamenti ripetuti nel tempo e a circoscrivere in modo inacettabile l’ipotesi della tortura psichica denunciando che la legge di fatto esprime la volontà di proteggere, a qualunque costo, gli appartenenti agli apparati statali, anche quando commettono grave violazione dei diritti umani; una legge dunque non in linea con gli standard internazionali e che non risponde realmente agli impegni assunti 28 anni fa con la ratifica della Convenzione ONU.

Ottobre 2017

Nota a cura avv. E. Oropallo

Condannata l’Italia per maltrattamenti commessi da agenti della polizia municipale

Con recente sentenza depositata il 12.10 u.s. (ricorso n. 21759/15 causa Pennino v. Italia)la Corte Edu ha condannato l’Italia per maltrattamenti commessi da agenti della polizia municipale, ritenendo sussistere violazione dell’art. 3 della convenzione che vieta i trattamenti inumani e degradanti. La vicenda è nata dalla denucia di una donna fermata da agenti della polizia municipale e condotta nei locali di servizio dove aveva subito maltrattamenti che le avevano procurato la frattura di un pollice ed altre contusioni. Scattata la denuncia, poi, la Procura della Repubblica aveva deciso di archiviarla. Diverse le violazioni contestate all’Italia. Le autorità nazionali – hanno l’obbligo – osserva la Corte – di proteggere le persone che subiscono limitazioni alla propria libertà personale per cui, in caso di denuncia, deve assicurare indagini accurate per verificare i fatti. Anche a tener conto del fatto che, se la vittima della violenza si trova sotto il controllo di autorità di polizia, spetta allo Stato in causa di fornire una spiegazione soddisfacente e convincente che l’uso della forza è stato limitato a quanto strettamente necessario. Nel caso in esame, invece, lo Stato italiano non ha dimostrato la necessità dell’uso della forza, giustificandola per bloccare la persona che si trovava in stato di agitazione.

Ancora la Corte ha ritenuto che mancasse qualsiasi prova di quanto accaduto all’interno della stazione di polizia, limitandosi lo Stato italiano a mostrare un rapporto redatto dagli stessi agenti della polizia municipale. Altra circostanza che getta ombra sulla correttezza delle indagini è che la richiesta di archiviazione del procuratore aveva una motivazione molto succinta e scritta in modo standardizzato.

Stessa critica mossa al Giudice che non ha motivato in modo convincente il diniego della richiesta della richiesta di svolgere ulteriori indagini. Di qui la condanna comminata all’Italia per la violazione dell’art. 3 della Convenzione e di versare alla vittima 12.000 euro per i danni non patrimoniali e 8.000 per le spese di giustizia sotenute.

Fonte: www.marinacastellaneta.it

Ottobre 2017

Nota a cura

avv. E. Oropallo

Convivenza forzata in carcere: escluso il risarcimento

Il Tribunale di Napoli ha riconosciuto ad un ex detenuto presso il carcere di Poggioreale di Napoli un ristoro economico ritenendo inaccettabili le condizioni di detenzione.

Secondo la Corte di Cassazione (Sez. VI Civ. ordinanza n. 23779 depositata l’11. Ottobre) “convivenza forzata” e “contiguità insopportabile” sono riferimenti troppo generici per parlare di detenzione inumana e riconoscere un risarcimento alla persona costretta dietro le sbarre.

Le ragioni poste a base della decisione resa dal Tribunale di Napoli non sono condivisibili in quanto troppo generiche a tal punto da non assolvere affatto all’onere di motivazione in ordine allo specifico riscontro di condizioni di detenzione tali da violare l’art. 3 della CEDU. In particolare – argomenta la Cassazione – non risulta fornita alcuna spiegazione in ordine all’effettivo riscontro delle condizioni di presunto affollamento allegata dall’istante, alle eventuali fonti di conoscenza, agli elementi di fatto cui associare, finanche nella dedotta promiscuità, l’esistenza di condizioni di detenzione tali da non poter essere considerate conformi a umanità, quanto allo spazio vitale minimo individuale e alle connesse possibilità di movimento e di socializzazione – per cui – la Corte cassa il decreto perché affetto da motivazione solo apparente.

E’ possibile che il decreto sia stato insufficentemente motivato ma ci lascia perplessi la decisione della Cassazione di ritenere insussistente, nel caso specifico, la violazione dell’art. 3 della CEDU a tener conto delle condizioni davvero inumane in cui versano le carceri italiane, e in particolare le condizioni di sovraffollamento in cui si trovano i detenuti a Poggioreale.

Se la detenzione dovesse servire, anche e soprattutto, ad avviare un processo di reinserimento del detenuto nella società, ebbene si può solo parlare, per quanto riguarda le condizioni carcerarie italiane, che questo obiettivo è largamente fallito.

Resta accertato che la detenzione, se non è accompagnata da un progetto serio di reinserimento che non c’è nei fatti, vuoi per carenza di fondi, vuoi per carenze organizzative e soprattutto scontrandosi con una mentalità di chi ritiene che il carcere debba servire per tener lontani i criminali (lo sono tutti?) dal mondo esterno, ebbene si viene a dimenticare il principio costituzionale che la privazione della libertà ha come obiettivo di proporre un reinserimento del detenuto nella società. Se già la privazione della libertà è la pena, non vediamo perché ad essa si debba accompagnare anche la privazione di quei diritti civili irrinunciabili della persona che devono essere rispettati anche in caso di privazione della libertà.

Ricordiamo che anche qui in Italia in più di un’occasione i vertici della Corte di Cassazione ed anche delle Corti d’Appello territoriali hanno richiesto ai Magistrati di applicare la detenzione solo come estrema ratio per non rompere quel legame che unisce il detenuto alla società esterna, soprattutto sotto il profilo dell’affettività, ricordando che, proprio per le pesanti limitazioni cui sono sottoposte le visite dei familiari, sono sempre più diffusi i casi di violenza sessuale all’interno delle carceri.

Se alcune forme di semi-libertà servono ad aprire una prospettiva, non vediamo perché il recluso non possa usufruire di questi benefici senza dover subire una situazione degradante, oltre alla privazione della libertà. Il fatto è che spesso chi giudica non ha mai avuto esperienza di quello che è oggi la struttura carceraria (ma in effetti si può dire che è sempre stato così), non rende possibile  la riconciliazione tra il detenuto e la società esterna.

Ottobre 2017

Nota a cura avv. E. Oropallo