Elezioni degli ordini forensi: il Governo concede una proroga

Il Consiglio dei Ministri, nella seduta n. 37 tenutasi il 10 gennaio 2019, ha approvato un decreto legge con il quale, per il rinnovo dei consiglio degli ordini di rappresentanza, è stata concessa una proroga di sei mesi per fare in modo che si rinnovino senza incertezze applicative.

La proroga semestrale, tuttavia, non impedisce agli Ordini che già dispongono di liste di candidati conformi al dettame della sentenza, di svolgere la consultazione elettorale nei tempi stabiliti.

L’intervento del Governo è derivato dalle incertezze interpretative sorte nell’applicazione della legge n. 113/2017 che disciplina l’elezione dei membri dei consigli degli ordini circondariali forensi, laddove prevede l’ineleggibilità degli avvocati che hanno già svolto due mandati consecutivi. L’Esecutivo, nel fare chiarezza sulla questione, ha confermato quanto già sancito dalle Sezioni Unite della Cassazione con la sentenza n. 32781/18 secondo la quale, ai fini del divieto di cumulo dei mandati, devono considerarsi anche i mandati i parzialmente svolti nonché quelli iniziati prima della riforma dell’ordinamento della professione forense del 2012.

Se l’interpretazione del Governo è conforme alle sentenze emesse dalla Cassazione – Sez. Unite – non si comprendono le ragioni di questo provvedimento. Non sarebbe stato più semplice che gli avvocati che si trovano in stato di ineligibilità rinuncino alla propria candidatura?

In caso contrario, se ne assumerebbero tutte le responsabilità che non sono davvero poche. Mi sembra che il provvedimento, invece di chiudere la vicenda, voglia prendere tempo semmai per operare la modifica della normativa in vigore.

Gennaio 2019

Fonte D & G

Nota a cura

avv. E. Oropallo

Maltratta compagna e figlia e le perseguita online: necessaria la custodia in carcere

Sotto accusa per avere maltrattato l’ex compagna e la figlia, l’uomo sceglie assurdamente di minacciarla e offenderla non solo tramite telefono ma anche attraverso i social network. Legittimo, di conseguenza, secondo i Giudici, il provvedimento con cui gli viene imposta la misura cautelare della custodia in carcere (Corte di Cassazione, sentenza n. 57870/18, sez. VI Penale).

Inutile il ricorso proposto in Cassazione dall’imputato. Anche i Giudici del Palazzaccio, difatti, ritengono vada confermata “la custodia in carcere”. Decisiva la constatazione che egli ha ignorato completamente “il divieto di comunicazione” con l’ex compagna e la figlia, rivolgendo loro “messaggi vocali minacciosi” e “messaggi dai contenuti infamanti pubblicati sui social network”.

Fonte D&G

Nota a cura avv. E. Oropallo

Gennaio 2019

Circolazione in Italia dei veicoli stranieri sotto osservazione da parte della polizia

Con il d.l. n. 113/2018, convertito nella legge 1° dicembre 2018, n. 132, sono state inasprite le misure sanzionatorie per chi circola con un veicolo munito di targa straniera sul territorio nazionale. Sono esclusi dal divieto generale i veicoli in disponibilità di soggetti residenti in Italia in virtù di un contratto di leasing o di noleggio stipulato all’estero con una società che non ha sede in Italia. E anche i veicoli intestati ad una impresa estera, senza sedi in Italia, assegnati in comodato ad un soggetto residente in Italia per motivi di lavoro o collaborazione. Per evitare le pesanti sanzioni individuate dalla riforma degli artt. 93 e 132 c.d.s. sono percorribili solo due strade. Una nuova immatricolazione italiana del veicolo, oppure la conduzione all’estero del mezzo con riconsegna delle targhe.

Fonte D & G

Nota a cura avv. E. Oropallo

Gennaio 2019

E’ valida la delega orale conferita dall’avvocato di fiducia al suo sostituto

 Così ha ribadito la Corte di Cassazione con la sentenza n. 57832/18, depositata il 20 dicembre.

Validità della delega orale.

Da un primo orientamento (sentenza n. 26606/18) emerge una risposta negativa: in ambito giudiziale era richiesta la forma scritta per ritenere valida la nomina del sostituito del difensore. Tuttavia, la S.C. adita dalla ricorrente ritiene dar seguito a un secondo orientamento giurisprudenziale (sentenza n. 48862/18) che riteneva legittimo l’utilizzo della forma orale per la nomina di predetto sostituto.
Tale conclusione, secondo la S.C. adita, risponde ad esigenze di semplificazioni emergenti dalla riforma dell’ordinamento forense.
Inoltre, secondo il prevalente orientamento giurisprudenziale la previsione dell’art. 14, comma 2 l. n. 247/2012 (Nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense), che prevedeva che “gli avvocati possono farsi sostituire da altro avvocato, con incarico verbale o da un praticamente abilitato, con delega scritta”, è da ritenere applicabile sia in sede stragiudiziale che giudiziale.

Fonte D & G

Nota a cura avv. E. Oropallo

Gennaio 2019

La giurisdizione del giudice ordinario sull’opposizione avverso il diniego del questore al rilascio del permesso di soggiorno

Sul tema si pronuncia la Corte di Cassazione con sentenza n. 32774/18, depositata il 19 dicembre.

La vicenda. Un cittadino senegalese chiedeva l’accertamento al proprio diritto al rilascio di un permesso di soggiorno per motivi umanitari, sostenendo di essere stato oggetto di grave sfruttamento lavorativo, di aver manifestato la volontà di cooperare nel processo penale a carico del proprio datore di lavoro.
Il Tribunale, in accoglimento dell’eccezione del Ministero dell’Interno, che aveva eccepito il difetto di giurisdizione del giudice ordinario, sostenendo che la controversia fosse di competenza del giudice amministrativo, riteneva che la situazione soggettiva avesse consistenza di interesse legittimo. La Corte d’Appello confermava la sussistenza in materia di giurisdizione del giudice amministrativo. Avverso tale decisione, il cittadino senegalese propone ricorso per cassazione.

La giurisdizione. Come già più volte ribadito dalla Suprema Corte, sussiste la giurisdizione del giudice ordinario sull’impugnazione del provvedimento del questore di diniego del permesso di soggiorno per motivi umanitari, poiché al questore stesso non è attribuita alcuna discrezionalità valutativa in ordine all’adozione degli atti riguardanti i permessi umanitari.

Pertanto, le Sezioni Unite della Cassazione, in accoglimento del ricorso, con rinvio della sentenza cassata al Tribunale, chiede a quest’ultimo di attenersi al seguente principio di diritto: “In tema di immigrazione, l’opposizione avverso il diniego del questore al rilascio del permesso di soggiorno previsto dall’art. 22, comma 12-quater, del d.lgs. n. 286 del 1998 in favore del cittadino straniero vittima di sfruttamento lavorativo appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario, che procederà con cognizione piena a verificare la sussistenza dei relativi presupposti, atteso che il parere del Procuratore della Repubblica, cui è condizionato il rilascio del permesso da parte del questore, costituisce esercizio di discrezionalità tecnica ed esaurisce la propria rilevanza all’interno del procedimento amministrativo, non vincolando l’autorità giurisdizionale”.

Non è la prima volta che la Cassazione interviene per riaffermare il punto della giurisdizione ordinaria laddove l’organo amministrativo delo Stato rivendica la sua specifica competenza in materia.

Come ribadisce la Corte con questa sentenza, quella del soggetto che si vede respinta la richiesta del permesso di soggiorno per motivi umanitari è un diritto soggettivo vero e proprio che appartiene solo alla giurisdizione del giudice ordinario.

Fonte D & G

Nota a cura avv. E. Oropallo

Gennaio 2019

Sono ineleggibili, al Consiglio dell’Ordine, gli avvocati che hanno già espletato due mandati consecutivi

Le Sezioni Unite Civili, con la sentenza n. 32781/18, depositata il 19 dicembre, hanno affermato che, in tema di elezioni dei Consigli degli ordini circondariali forensi, la disposizione dell’art. 3, comma 3, secondo periodo, l. 12 luglio 2017 n. 113, in base alla quale i consiglieri non possono essere eletti per più di due mandati consecutivi, si intende riferita anche ai mandati espletati anche solo in parte prima della sua entrata in vigore, con la conseguenza che, a far tempo dall’entrata in vigore di detta legge e fin dalla sua prima applicazione in forza del comma terzo del suo art. 17, non sono eleggibili gli avvocati che abbiano già espletato due mandati consecutivi.

L’applicazione non retroattiva della norma. 

Sempre a parere del Giudice di legittimità attribuire rilevanza, ai fini dell’ineleggibilità, anche ai mandati antecedenti all’entrata in vigore della novella normativa non implica l’applicazione dell’art. 3, comma 3, secondo periodo, l. n. 113/17. 

La sentenza della Cassazione sopra riportata rischierebbe, secondo alcuni commentatori,  di creare problemi per le prossime elezioni degli Ordini degli Avvocati previste per questo mese nella misura in cui, debbono essere conteggiati anche i nominativi scelti prima dell’entrata in vigore della legge 113/2017.

 

In sostanza, la Cassazione sancisce il limite del doppio mandato alle cariche elettive, indicando come ratio l’esigenza di garantire un’ampia parrtecipazione alle funzioni di governo degli ordini, favorendo l’avvicendamento in modo “da garantire la par codicio tra candidati”, “nonché di evitare fenomeni di sclerotizzazioni nelle relative compagini”.

Fenomeno questo ben diffuso in passato per cui va senz’altro ritenuto corretta ed adeguata la decisione della Corte.

Fonte D & G

Gennaio 2019

Nota a cura avv. E. Oropallo

 

Il ripensamento unilaterale del coniuge non preclude l’accoglimento della domanda congiunta di divorzio

Così decide la Cassazione con ordinanza n. 19540/18, depositata il 24 luglio.

Il fatto. Il Tribunale di Pescara in primo grado rigettava la domanda congiunta di divorzio promossa dai due coniugi rilevando che all’udienza di comparizione dei coniugi la moglie aveva revocato il consenso precedentemente prestato.

La Corte d’Appello de L’Aquila confermava la sentenza di primo grado per cui la decisione viene impugnata con ricorso in Cassazione dell’originario richiedente.

Accoglie il ricorso la Cassazione ricordando, come sostenuto dal ricorrente, che in tema di divorzio a domanda congiunta l’accordo tra i coniugi ha natura meramente ricognitiva “con riferimento ai presupposti necessari per lo scioglimento del vincolo coniugale la cui sussistenza è soggetta a verifica da parte del Tribunale”.

La Corte ha precisato che la separazione consensuale “individua il presupposto sostanziale della fattispecie nell’accordo tra i coniugi, al quale il tribunale è chiamato ad attribuire efficacia dall’esterno, mediante un’attività di controllo che non può mai tradursi in un’integrazione o una sostituzione del consenso delle parti” laddove il divorzio congiunto, “richiede una rinuncia costitutiva, fondata sull’accertamento dei presupposti richiesti dall’art. 3 della l. n. 898/1970”.

In conclusione la Cassazione, ha ritenuto fondato il ricorso e cassa la sentenza impugnata con rinvio al Tribunale che, nonostante la revoca del consenso di uno dei coniugi, dovrà provvedere ugualmente all’accertamento dei presupposti del divorzio.

Fonte: D & G

Nota a cura avv. E. Oropallo

Indennizzo anche se il processo troppo lungo porta alla prescrizione

L’equa riparazione deve essere concessa alla vittima di un processo troppo lungo anche quando la durata eccessiva del processo determina l’estinzione del reato per prescrizione. E’ la Corte di Cassazione, seconda sezione civile, ad affermarlo con l’ordinanza n. 28784 deposita il 9 novembre.

In effetti un uomo condannato in primo grado per il reato di lesioni personali ricorre in appello. La Corte d’Appello dopo 7 anni dichiara non doversi procedere per sopravvenuta prescrizione per cui si rivolge alla Corte d’Appello per ottenere un’equa riparazione in base alla legge n. 89/2001. La Corte accoglie il ricorso ma il Ministero fa ricorso in Cassazione sostenendo che la lunga decorrenza del procedimento aveva comportato effetti favorevoli per l’imputato. La tesi era stata condivisa dalla Corte d’Appello di Firenze per cui l’uomo fa ricorso in Cassazione che gli ha dato ragione.

Per la Suprema Corte, infatti, deve essere concessa “senza alcun riguardo all’esito del giudizio protrattosi oltre il termine” a meno che non sia stato lo stesso imputato a usare tecniche dilatorie o abbia fatto ricorso a un abuso del diritto di difesa. Solo in questo caso l’indennizzo non va concesso.

Fonte: www.marinacastellaneta.it

Intervento di Trump per bloccare la concessione dell’asilo a chi entra irregolarmente dal confine con il Messico

Il Presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha adottato, il 9 novembre, un decreto presidenziale per impedire la concessione dell’asilo a cittadini stranieri, per lo più sudamericani, che entrano irregolarmente attraverso il confine con il Messico sul suolo Usa. Ad avviso di Trump, l’arrivo di un alto numero di stranieri senza documenti di ingresso minaccia l’integrità delle frontiere, oltre a richiedere un ampio utilizzo di risorse per la sorveglianza e la detenzione degli stranieri in situazione di irregolarità. Nel documento si precisa che ben pochi di coloro che arrivano attraverso la frontiera messicana hanno diritto all’asilo.

Di qui la decisione di bloccare l’ingresso, per un determinato periodo, di alcuni stranieri provenienti dal confine messicano e di impedire la concessione dell’asilo. Una misura sicuramente contraria al diritto internazionale nella parte in cui è stabilito che per il solo fatto che lo straniero prova a entrare in modo irregolare sul territorio non possa ottenere l’asilo.

Fonte: www.marinacastellaneta.it

Omesso versamento dell’assegno di mantenimento: l’ex marito deve risarcire il danno

Così ha affermato il Tribunale di Roma con la sentenza n. 17144/18, depositata il 12 settembre. 

Il fatto. Il Tribunale di Roma veniva adito da una donna per sentir condannare l’ex marito al risarcimento dei danni patiti per il mancato adempimento degli obblighi di mantenimento nei suoi confronti ed in quelli dei 4 figli minori, oltre che per lesione della sua dignità e del suo onore con minacce ed offese.

L’attrice deduceva che l’ex marito si era reso sistematicamente inadempiente nel versamento dell’assegno divorzile e di mantenimento fissato dal giudice per cui aggiungeva di aver già avviato azione esecutiva per il recupero del credito nei confronti del convenuto, che rimaneva contumace.

Stante la contumacia dell’ex coniuge, rileva la Corte, l’inadempimento risulta comprovato dal contenuto delle risultanze probatorie prodotte dall’attrice e contenenti anche le minacce ricevute. Il giudice richama l’art. 12–sexies  l.  n. 898/1970  secondo  cui  al  coniuge  che si sottrae

all’obbligo di corresponsione dell’assegno divorzile e di mantenimento

si applicano le pene di cui all’art. 570 c.p. per la violazione degli obblighi di assistenza familiare.

La sentenza in commento riscontra la sussistenza di “condotte idonee ad ingenerare nella vittima uno stato di ansia e preoccupazione” per cui viene a concretizzarsi il danno morale risarcibile ex art. 2059 c.c..

Posta la gravità dei fatti, il giudice accoglie la domanda attorea quantificando il risarcimento in 20mila euro.

Fonte: D & G

Termine per l’impugnazione della sentenza di patteggiamento (e per il deposito della motivazione)

Nella sentenza della Sezioni Unite N. 40986/2018 in tema di legge penale (quando vi sia successione di leggi penali nel tempo ex art. 2 c.p.) applicabile quando fatto e condotta sono avvenuti in tempi diversi, viene finalmente affrontata e risolta espressamente (non si tratta di affermazione incidentale) la questione del termine per l’impugnazione della sentenza di patteggiamento e la possibilità per il giudice di fissare un termine per il deposito della motivazione.

La  Suprema Corte previa considerazione dei vari orientamenti della sezioni semplici perviene alla conclusione che nella sentenza di patteggiamento (che deve essere sempre considerata un provvedimento pronunciato in camera di consiglio anche nella fase del giudizio quando emessa prima dell’apertura del dibattimento di primo grado), non è intanto possibile applicare la normativa sul deposito ritardato della motivazione che vale per le sentenze dibattimentali e quelle rese a seguito di giudizio abbreviato, di talché la motivazione della sentenza di patteggiamento dovrebbe essere sempre depositata unitamente alla decisione; nel caso dell’apposizione di un termine per il deposito questo termine deve considerarsi irritualmente fissato di talché il termine per impugnare è sempre fissato in 15 giorni che decorrono, ove dispositivo e motivazione non siano contestuali, dall’ultima notificazione dell’avviso di deposito del provvedimento (nel caso de quo i giudice aveva riservato un termine per il deposito di 15 giorni depositando la sentenza tempestivamente, tuttavia non era stato dato l’avviso di deposito che è quindi obbligatorio alla fine della decorrenza del termine di impugnazione).

Filippo Poggi

Giudizio abbreviato e rinnovazione in appello

In allegato l’ordinanza della Corte di Appello di Milano del 20.02.2018 di cui si è molto discusso in un corso della SSM dello scorso mese di settembre e che pare essere sul punto il classico “uovo di Colombo”. In buona sostanza la Corte afferma, con una buona dose di ‘pragmatismo ambrosiano’ che la nuova formulazione dell’art. 603, comma 3-bis c.p.p. con obbligo di rinnovazione dell’istruttoria non può trovare applicazione quando il PM impugni una sentenza emessa a seguito di giudizio abbreviato non condizionato in quanto manca del tutto una “istruzione dibattimentale” da rinnovare in sede di appello. Non potendosi peraltro applicare i principi delle Sezioni Unite Dasgupta e Patalano in quanto emesse prima dell’entrata in vigore della Legge n. 103/2017.

Nel testo dell’ordinanza vengono fatte salve altre ipotesi di rinnovazione, quando anche nel corso di un giudizio abbreviato alcune prove siano state assunte nella pienezza del contraddittorio (incidente probatorio) e comunque con l’intervento delle parti, quando il giudice abbia attivato in primo grado i poteri officiosi ex art. 441, comma 5 c.p.p.

Le conclusioni appaiono completamente condivisibili e occorre aggiungere che sempre il criterio di interpretazione letterale dovrebbe essere quello preferito dal Giudice, dovendosi gli altri criteri interpretativi enunciati dall’art. 12 ss. delle Preleggi ritenere subordinati ed applicabili solo in quanto il primo risulti del tutto insufficiente a dare applicazione alla norma: regola che consentirebbe di riaffermare il principio costituzionale di “soggezione del giudice solo alla legge” ma certamente almeno alla legge verrebbe da dire, impedendo interpretazioni distanti dal testo normativo che per quanto imperfetto, mal formulato, scarsamente coordinato e con tutte le altre censure che si possono facilmente muovere al Legislatore è e resta il termine essenziale di confronto su cui di dovrebbe impegnare chi pronuncia in nome del Popolo Italiano.

La questione della riassunzione delle prove rappresentate da consulenze tecniche e perizie (dovendosi stabilire se appartengano al genere delle prove dichiarative) è sottoposta alle Sezioni Unite all’udienza del prossimo 22.11.2018 (Rel. Rago).

Filippo Poggi

Infondatezza (semplice o manifesta) del ricorso per Cassazione

In allegato una sentenza della Seconda Sezione Penale (Pres. Davigo) depositata lo scorso marzo 2018 che mi era del tutto sfuggita e che ho sentito richiamare ieri nel corso di una udienza in Cassazione dove personalmente ho incassato un’altra inammissibilità (sempre alla Seconda Penale) del ricorso che pur era sfuggito alla scure della Settima Penale.

La sentenza richiama con un buon grado di approfondimento le ragioni (v. pagg. 9-11) che hanno portato le Sezioni Unite 22.11.2000 n. 32 ad una vera e propria creazione giurisprudenziale che non ha un reale fondamento normativo: la inammissibilità del ricorso per cassazione impedisce l’instaurarsi del rapporto processuale e quindi tra l’altro di dichiarare la prescrizione del reato ex art. 129 c.p.p. medio tempore intervenuta (la tra la pronuncia in grado di appello e quella di cassazione). Tra l’altro non si è mai capito perché a questa regola peraltro molto lineare farebbe e fa eccezione il caso di querela rimessa e accettata, per in questa ipotesi invece anche nel caso di ricorso che sarebbe inammissibile, l’estinzione del reato viene dichiarata.

Ma tornando alla questione centrale della sentenza in commento, la Cassazione tenta di fornire un decalogo (v. pagg. 12 – 13 della motivazione) per distinguere l’infondatezza manifesta da della “mera” infondatezza, senza la quale si finirebbe nell’arbitrio (nel quale almeno a mio modesto giudizio ci troviamo senz’altro, decalogo e non decalogo).

Il decalogo anzi appare abbastanza “aperto” nel senso che la discrezionalità che deve guidare il giudice a prendere per l’una o l’altra infondatezza sembra restringere i casi di infondatezza manifesta. Però la sentenza stessa finisce per dichiarare l’inammissibilità del ricorso tra nullità innocue, nullità non tempestivamente eccepite, “prove di resistenza” quando si invochi l’inutilizzabilità di una prova che trasformano tout court il giudice di legittimità in un giudice di merito.

Insomma per quanto mi riguarda posso convenire senza troppe difficoltà che il mio ricorso fosse inammissibile, ma lo era certamente anche quello del Procuratore Generale che criticava il giudice di appello per avere concesso le attenuanti generiche. E vorrei che qualcuno mi citasse il caso di ricorsi in cassazione accolti per motivazione illogica o contraddittoria sulla mancata concessione delle generiche: nella esperienza un caso mai visto.

Intanto in tema di prescrizione ci siamo incassati, con la cd Riforma Orlando, la sospensione per 18 mesi tra il giudizio di primo grado e quello di appello per i reati commessi dal 3.08.2017, poi è notizia di oggi che il Governo approverà la norma che sospende la prescrizione dopo la sentenza di primo grado (anche di assoluzione), una norma palesemente incostituzionale per cui l’Unione delle Camera Penali ha proclamato l’astensione dalle udienza per quattro giorni.

Filippo Poggi

Illegittimo il licenziamento del lavoratore condannato per maltrattamenti in famiglia

Condannato per maltrattamenti ai danni dei familiari. Questa “macchia” sulla fedina penale è però limitata a un ambito strettamente privato, e non può quindi avere ripercussioni sul fronte lavorativo.

Di conseguenza, i Giudici del Palazzaccio hanno confermato la decisione con cui in appello è stata dichiarata l’illegittimità del licenziamento di un dipendente di Rete Ferroviaria Italiana S.p.a., inquadrato come “capo stazione”(Cass. Sentenza n. 21958/18, Sez. Lavoro, depositata oggi).

In secondo grado i giudici, pur prendendo atto delle “condanne penali” nei confronti dell’uomo per “maltrattamenti familiari”, ritengono tali condotte censurabili ma “inidonee ad incidere sul rapporto” con l’azienda.

Pronta la replica da parte degli avvocati dell’azienda, i quali presentano ricorso in Cassazione col chiaro obiettivo di porre in evidenza la “gravità” dei comportamenti tenuti dal lavoratore.

In particolare, i legali richiamano, innanzitutto, “il disvalore della condotta” da lui tenuta in ambito familiare ponendo in evidenza “il danno derivato alla società”, poiché, spiegano i legali, la condanna penale del lavoratore “era stata riportata dagli organi di stampa”, che lo avevano identificato con “la qualifica di ferroviere”.

La visione proposta dalla società non convince però i Giudici della Cassazione, i quali confermano la vittoria del dipendente, che può considerare salvo il proprio posto di lavoro.

In sostanza, secondo i Giudici del Palazzaccio, “l’azienda non è mai stata danneggiata da scelte” del lavoratore “incompatibili con il ruolo riconosciutogli”.

Novembre 2018

Fonte D. e G.

Nota a cura avv. E. Oropallo

Vivere in Italia è un requisito inderogabile per la pensione di invalidità

(Corte di Cassazione, Sez. Lavoro, ordinanza n. 21901/18; depositata il 7 settembre).

Ai sensi dell’art. 10-bis, comma 1, del Regolamento (CEE) n. 1408/1971, come modificato dal Regolamento (CEE) n. 1247/1992, “le prestazioni speciali in denaro, sia assistenziali che previdenziali, ma non aventi carattere contributivo non sono esportabili in ambito comunitario, e sono erogate esclusivamente nello Stato membro in cui i soggetti interessati risiedono ed ai sensi della sua legislazione”.

Di conseguenza in Italia non è dovuta la pensione di invalidità civile al cittadino residente all’estero, come di recente riaffermato da questa Corte (sentenza 7914/2017).

Novembre 2018

Fonte: D. e G.

Nota a cura avv. E. Oropallo

Manca la firma del giudice sulla copia autentica: decreto ingiuntivo inesistente?

Lo ha chiarito la Corte di Cassazione con la sentenza n. 22077/18; depositata l’11 settembre.

Nel giudizio di merito, il decreto ingiuntivo è stato ritenuto inesistente e, conseguentemente, la domanda di ammissione allo stato passivo è stata respinta in quanto la copia del decreto ingiuntivo posto a base dell’istanza di insinuazione, era priva della sottoscrizione del Giudice. Il creditore ha, presentato ricorso per cassazione, evidenziando l’erroneità della decisione impugnata laddove ha ritenuto non operante la presunzione di conformità all’originale della copia del decreto ingiuntivo; depositato presso la Cancelleria del Tribunale e contenente, sotto l’indicazione “il Pretore”, una sottoscrizione mai contestata.

La Suprema Corte, preliminarmente, ritiene ammissibile il ricorso presentato dal creditore.

L’art. 643 c.p.c., dopo aver stabilito, nel primo comma, che l’originale del ricorso e del decreto rimane depositato in cancelleria, aggiunge, nel secondo comma, che “il ricorso e il decreto sono notificati per copia autentica a norma degli artt. 137 e seguenti dello stesso codice”.

Copia autentica – scrive la Cassazione – è quella che il pubblico ufficiale dichiara essere conforme al proprio originale: l’autenticazione della copia è l’attestazione che essa è conforme all’originale.

Da tale normativa non si evince in alcun modo che la mancanza della sigla abbreviata “f.to” apposta alla riproduzione del nominativo del magistrato che sottoscrive il decreto ingiuntivo si traduca in un vizio idoneo a dimostrare l’inesistenza, nell’originale del decreto, di qualsiasi sottoscrizione.

Posto che elemento essenziale dell’autenticazione della copia è l’attestazione della sua conformità all’originale, la pronuncia in commento esclude che la mancanza dell’abbreviazione “f.to” possa incidere su quell’elemento, con la conseguenza che la mancanza di traduce in una semplice irregolarità inidonea a rendere invalido l’atto, quando – come nella specie – non venga in discussione che esso fosse conforme all’originale che – come è possibile evincere dagli atti prodotti anche in sede di legittimità – conteneva la sottoscrizione autografa del magistrato.

Peraltro, la Suprema Corte ha già affermato il principio secondo cui, in tema di prova documentale, l’apposizione della formula esecutiva sulla copia della sentenza o, in questo caso, del decreto ingiuntivo, contiene necessariamente, anche implicitamente, l’attestazione di conformità all’originale che ne costituisce il presupposto.

La decisione del giudice di merito per la Cassazione è, illegittima, avendo eluso la necessità di dare rilievo preminente all’effettiva esistenza della sottoscrizione sull’originale del decreto ingiuntivo.

Novembre 2018

Fonte: D&G

Nota a cura avv. E. Oropallo

Ripercussioni fisiche post vaccino antipolio: riconosciuto il diritto all’indennizzo

Serissime ripercussioni fisiche manifestatesi subito dopo la vaccinazione antipolio. A pagare per i gravi problemi di salute subiti dal bambino – oramai diventato adulto – è il Ministero della Salute, condannato a risarcire la madre che ha presentato domanda ad hoc in qualità di tutrice del figlio. (Cassazione, ordinanza n. 22078/2018, Sezione Lavoro, depositata oggi).

La drammatica vicenda ha origine nel lontano ottobre del 1961. All’epoca il bambino viene sottoposto alla “vaccinazione antipolio (tipo Salk)”. Pochi giorni dopo, però, egli è vittima di un malore, e la situazione va purtroppo peggiorando nel tempo: i genitori debbono prendere atto delle patologie che hanno colpito Paolo, ossia “tetraparesi spastica, insufficienza mentale ed epilessia”.

Ora, a distanza di quasi sessant’anni, vengono riconosciute le responsabilità del Ministero della Salute, condannato a versare alla madre di Paolo “l’indennizzo” previsto dalle leggi 210/1992 e 362/1999.

Respinta anche in Cassazione l’obiezione relativa a una presunta “decadenza” dal diritto a presentare “richiesta di indennizzo” nei confronti dello Stato, ritenendo “sussistente il nesso di causalità tra la vaccinazione e il successivo manifestarsi della patologia”.

Novembre 2018

Fonte: D&G

Nota a cura avv. E. Oropallo

Caso Provenzano – sentenza CEDU condanna l’Italia per violazione art. 3 della convenzione

Con sentenza recente la Corte EDU, Sez. I, del 25.9.2018 – Provenzano / Italia ric. n. 3508/13 ha condannato l’Italia per violazione dell’art. 3 che stabilisce che “nessuno può essere sottoposto a torture né a pene o trattamenti inumani o degradanti”. Brevemente, nell’esercizio della propria potestà punitiva, lo Stato ha l’obbligo di assicurare che ogni prigioniero sia detenuto in condizioni compatibili con il rispetto della dignità umana, che le modalità di esecuzione non aggiungano ulteriore afflizione alla pena detentiva e soprattutto, tenuto conto delle esigenze della detenzione, vigilare che la salute ed il benessere dei detenuti siano assicurati dignitosamente. Più chiaramente, se la pena consiste nella privazione della libertà dell’individuo, non c’è ragione di aggiungere ulteriori limitazioni, aggiungendo afflizione ad altra afflizione.

Con la sentenza sopra richiamata, la Corte ha condannato l’Italia per violazione dell’art. 3 CEDU, con riferimento al provvedimento di proroga del regime di cui all’art. 41-bis ord. penit. nei confronti di Berardo Provenzano il 23.3.2016, qualche mese prima della sua morte, avvenuta il 13.7.2016. La Corte ha accolto solo parzialmente il ricorso presentato dal figlio del Provenzano, facendo riferimento alla insufficiente valutazione, nel provvedimento di proroga, del deterioramento delle funzioni cognitive del detenuto non rinvenendo alcuna violazione né nell’applicazione dell’art. 41 bis né rispetto alla precedente proroga del regime differenziato – pur avvenuta in presenza di un deterioramento delle condizioni cognitive – in quel caso, però, presa adeguatamente.

In effetti, il ricorrente aveva proposto reclamo ai sensi art. 41 bis c. n. quinquies ord. penit. contro due decreti di proroga del regime differenziato, uno nel marzo 2014 e il successivo nel marzo 2016 motivati dalla circostanza che, per il grave deterioramento del suo stato di salute, era venuta meno la possibilità – posta a base dell’applicazione del regime speciale – che Provenzano – se collocato in regime detentivo ordinario – mantenesse i collegamenti con l’associazione.

Reclami entrambi rigettati dal Giudice nazionale per cui, esauriti i rimedi interni, il ricorrente, a mezzo del figlio, nominato suo amministratore di sostegno, si rivolgeva alla Corte EDU sostenendo la violazione dell’art. 3 della Cedu sotto due profili sia ritenendo incompatibile il regime speciale con le condizioni di salute del padre e l’inadeguatezza delle cure ricevute e dall’altra quello concernente la perdurante sottoposizione al regime di cui all’art. 41 bis. ord. penit. ritenuta non più giustificata, in ragione del significativo deterioramento delle sue funzioni cognitive. Per accertare la violazione dell’art. 3 CEDU, la Corte riteneva che “sottoporre un individuo a una serie di restrizioni aggiuntive, imposte discrezionalmente, senza fornire sufficienti e rilevanti ragioni basate su una valutazione individualizzata di necessità, minerebbe la sua dignità umana e integrerebbe una violazione del diritto dell’art. 3 CEDU”.

Nel caso esaminato, però la Corte esclude che vi sia stata violazione sia per l’applicazione al Provenzano del regime speciale, ritenendolo compatibile con il suo stato di salute per quanto riguarda la proroga del 26.3.2014 emessa dal Tribunale di Sorveglianza che l’aveva concessa dopo un ampio esame della documentazione medica, non potendosi escludere all’epoca una possibilità per il ricorrente, in caso di regime ordinario, di poter comunicare con l’esterno.

Rispetto alla proroga del 23.3.2016, la Corte EDU perviene ad una conclusione opposta in quanto il provvedimento ministeriale non prevede adeguamenti in considerazione dell’ulteriore peggioramento delle condizioni cognitive del ricorrente, riconoscendo dunque per questo aspetto potersi parlare di violazione dell’art. 3 che viene individuato “nel non aver dimostrato, nel provvedimento ministeriale, che il ricorrente, nonostante lo stato di deterioramento psichico, sarebbe stato in grado di comunicare con l’associazione, qualora fosse stato collocato in regime ordinario”. In base alla considerazione della Corte EDU, dunque, emerge con chiarezza che dì per sé il regime di cui all’art. 41 bis è legittimo ed è compatibile, anche se di lunga durata, nei limiti in cui sia giustificato da finalità di prevenzione.

Riafferma però la sentenza la necessità di una valutazione attuale e in concreto della pericolosità del detenuto, come, peraltro riconosciuto da una recente pronuncia della Cassazione nel caso Riina (Cass. pen. sez. I. 23.3.2017 n. 27766) con la quale veniva annullato il provvedimento di rigetto emesso dal Tribunale di Sorveglianza di Bologna per carenza di motivazione sotto il profilo di attualizzazione della valutazione sulla pericolosità del soggetto, in quanto esso non chiariva come tale pericolosità potesse considerarsi attuale, alla luce della sopravvenuta precarietà delle condizioni di salute e del generale decadimento fisico del detenuto.

Contro la sentenza risorge insorge a modo suo il ministro dell’Interno Salvini “Baraccone europeo, per l’Italia decidono gli italiani e non altri”. Uscita infelice anche questa volta del Salvini che confonde la Corte EDU come espressione dell’UE mentre si tratta, come dovrebbe essere noto ad un ministro di Stato, che esso è emanazione del Consiglio di Europa, fondato nel maggio del 1949 con il Trattato di Londra, cui aderiscono oggi 47 Stati, compresi gli Stati che fanno parte dell’UE ma sottoscritto anche da altri Stati europei come la Russia o l’Ungheria.

Anche Di Maio, per non essere da meno rispetto al suo emulo, insorge: “Ma scherziamo? Non sanno di cosa parlano”. Bontà sua, crediamo che sia proprio il sig. Di Maio a non saper come stanno le cose. “L’argomento è tropo delicato per liquidarlo con frasi fatte” scrive – sulle colonne del quotidiano La Repubblica del 26.10 – Attilio Balzani il quale precisa che la questione posta a Strasburgo non è sulla validità dell’art. 41 bis ma se quel regime speciale potesse ritenersi applicabile al Provenzano nei suoi ultimi mesi di vita. “Uno Stato autorevole – si interroga il giornalista – ha davvero bisogno di seppellire i suoi nemici anche se sono incapaci di intendere e volere?. Franco La Torre – figlio di Pio- segretario regionale del Partito comunista ucciso a Palermo nel 1982 – e Dario Montana (fratello di Beppe, il poliziotto assassinato anche lui a Palermo nel 1985), si erano dichiarati favorevoli per marcare “la differenza fra noi che crediamo nello Stato e loro che sono mafiosi””. E’ d’accordo su questa posizione anche Giuseppe Ciminnisi – coordinatore nazionale dei familiari delle vittime di mafia dell’associazione “I cittadini contro le mafie e la corruzione”, il quale ammette che “l’applicazione di misure così dure nei confronti di un uomo – seppure un criminale – che a causa di un tumore e dell’Alzheimer era ridotto ad uno stato quasi vegetale e non più in grado di nuocere, rischia di apparire come una vendetta istituzionalizzata da parte di uno Stato che per decenni non ha saputo, o grazie alle collisioni di parte delle istituzioni, non ha voluto impedire e punire le ingiustizie”. “La forza di uno Stato, si misura nella giustizia, non nella vendetta ….alla quale io ho rinunciato confidando nello Stato…altrimenti, ricorrendo alle stesse barbarie, non potremmo dichiararci diversi da loro”. Parole queste che dovrebbero metter fine ad ogni speculazione di questo Governo, aggiungendo che a non aver letto la sentenza della Corte sia stato lo stesso, ahimè! ministro della Giustizia, che ha dichiarato che il regime dell’art. 41 bis non si tocca. Anche l’Unione delle Camere Penali Italiane, interviene sulla pronuncia della Cedu, scrivendo in un proprio documento che “le reazioni dell’attuale maggioranza al provvedimento della Cedu dimostrano ancora una volta che, in tema di giustizia, il Governo cerca il facile e immediato consenso popolare, senza alcuna analisi interpretativa e di sistema…rappresentando, dunque, l’associazione il totale dissenso e la forte preoccupazione per le dichiarazioni dei due vice premier Di Maio e Salvini”. “Uno Stato democratico – si legge nel comunicato – dà prova della sua forza proprio quando dimostra di saper rispettare i diritti anche del più feroce dei suoi nemici”, esprimendo sdegno e sbigottimento a fronte di tali scomposte reazioni nei riguardi di un provvedimento di un Organo Istituzionale Internazionale che condanna giustamente l’Italia per aver inflitto torture ad un uomo privo della capacità di pensare e muoversi”.

Come giustamente scrive Matteo Maria Orlando in un suo commento pubblicato sul sito “https://midnightmagazine.org” “appare ingiustificabile l’ulteriore e straordinaria compressione delle garanzie individuali discendenti dal 41-bis, che dovrebbe trovare applicazione solo in costanza di pericolosità sociale…..Dovrebbe essere istanza collettiva, nonché urgenza trasversale a tutte le forze politiche, la pretesa di una legge decisa ma non cinica, giusta e non crudele, autorevole ma non tirannica”.

Novembre 2018

(Avv. E. Oropallo)

Rinvio al giudice civile in grado di appello ex art. 622 c.p.p.

Invio in allegato questa sentenza appena depositata in data 3.10.2018 dalla Sesta Sezione Penale (Presidente Fidelbo – Estesore Silvestri)  su un tema abbastanza negletto eppure di notevole importanza: il perimetro della cognizione civile in grado di appello investito del giudizio a seguito di accoglimento del ricorso della parte civile o di annullamento di capi che riguardano l’azione civile. La Sesta Sezione affronta le problematiche definendo esattamente quel perimetro e richiamando il principio di diritto secondo cui la prova inutilizzabile nel giudizio penale resta tale anche nel giudizio civile di rinvio, quale naturale prosecuzione di un processo che si è svolto con le regole del rito penale.

Filippo Poggi

Riforma ordinamento penitenziario – DD. LGS. NN. 123 – 124/2018

In allegato i testi dei Decreti Legislativi di riforma dell’Ordinamento Penitenziario (dopo che il precedente Governo e il Ministro Orlando si sono fatti scadere la delega in maniera inescusabile), decreti che riguardano i condannati adulti mentre per i minorenni vi è altro decreto. Le nuove norme entrano in vigore il 10.11.2018 e ci sono anche parecchie modifiche al codice di procedura penale.

L’efficacia di diverse norme in tema di vita penitenziaria  è differita al 31.12.2021 (il che lascia molto da pensare sugli intendimenti riformatori).

Filippo Poggi