Immunità diplomatica e difetto di giurisdizione dell’A.G. italiana

La Corte di Cassazione, sezioni unite civili, con ordinanza n. 26661/16 depositata il 22.12.2016, sulla richiesta di reintegra del lavoratore di un istituto di cultura, organismo di uno Stato estero ha stabilito che il Giudice italiano non ha giurisdizione in forza della regola consuetudinaria sull’immunità degli Stati in quanto la richiesta di reintegra del lavoratore a seguito del licenziamento richiede accertamenti che interferiscono sul potere sovrano dello Stato. A rivolgersi alla Suprema Corte era stata l’Accademia reale di belle arti spagnola con sede a Roma che aveva licenziato un proprio dipendente che aveva impugnato il licenziamento innanzi al Tribunale italiano sostenendo che si trattava di un licenziamento discriminatorio. La Cassazione ha riconosciuto l’immunità prevista dai trattati internazionali sostenendo che non è possibile altra soluzione in base all’art. 11 della Convenzione delle N.U. del 2004 sull’immunità giurisdizionale degli Stati e dei loro beni ratificata dall’Italia con legge 14.1.2013 n. 5, sancendo, conseguentemente, il difetto di giurisdizione del giudice italiano limitatamente alla domanda di reintegrazione sul posto di lavoro, anche in linea con la giurisprudenza della Corte EDU.

Gennaio 2017

Fonte: www.marinacastellaneta.it

Nota a cura avv. Oropallo

Confermata la costituzionalità della legge Severino

La Corte Costituzionale con sentenza n. 276 del 16.12.2016 ha confermato la costituzionalità della legge Severino in quanto le misure dell’incandidabilità, della decadenza e della sospensione non hanno carattere sanzionatorio, rappresentando solo conseguenze del venir meno di un requisito soggettivo per l’accesso alle cariche elettive per cui ha ritenuto che non trova applicazione in materia penale il principio di legalità.

I rimettenti in effetti avevano lamentato la violazione del principio di irretroattività delle norme penali essendo l’applicazione della legge Severino limitata alle sentenze di condanna relative a reati consumati dopo la sua entrata in vigore.

La questione non è fondata: a giudizio della Consulta, l’art. 25 c. 1 Cost. si riferisce soltanto alla pena e non anche alle misure sanzionatorie diverse dalla pena in senso stretto per cui esso non è applicabile alle disposizioni censurate per la natura non punitiva di quanto in esse previsto.

La legge Severino, scrive la Consulta, non contrasta neppure con la CEDU in quanto la Corte EDU ha escluso la natura penale della misura dell’incandidabilità, quando sia diretta ad assicurare un corretto svolgimento delle elezioni parlamentari (cfr. CEDU, sentenza 21.10.1997, Pierre Bloch c. Francia).

Con riferimento alla presunta disparità di trattamento tra soggetti che ricoprono cariche politiche nelle regioni e negli enti locali da una parte e parlamentari nazionali ed europei dall’altra, la Consulta ritiene non fondata la questione sulla considerazione della diversità delle situazioni soggettive messe a confronto. Né il fatto che i consigli regionali esercitino anche essi funzioni legislative fa venir meno la diversità del loro livello istituzionale e funzionale rispetto al Parlamento.

Gennaio 2017

Fonte (D & G)

Nota a cura avv. Oropallo

Legittimità costituzionale della sospensione dei termini feriali degli atti del processo esecutivo

Con sentenza n. 191 del 20.7.2016 la Corte Costituzionale ha confermato la costituzionalità dell’art. 3 n. 742/1969 che non si applica al procedimento esecutivo: la sospensione feriale dei termini. L’intervento della Corte è stato sollecitato dal GdE che ha sollevato la questione di legittimità costituzionale della richiamata norma per violazione del canone di ragionevolezza e del principio di uguaglianza rilevando che “l’esclusione della sospensione dei termini durante le ferie degli avvocati non debba riguardare solo i giudizi di opposizione all’esecuzione, ma debba estendersi anche al processo esecutivo, in ragione della esigenza di sollecita definizione, comune ad entrambi i procedimenti”.

La Corte ha ritenuto infondata la questione rilevando che la norma censurata deroga alla previsione generale dell’art. 1 della l. n. 742/1969 in forza del quale tutti i termini processuali delle giurisdizioni ordinarie e amministrative restano sospesi durante il periodo feriale escludendo dalla sua applicazione tutti i procedimenti previsti dall’art. 92 del R.D. 30.1.1941 n. 12, tra i quali sono contemplati i giudizi di opposizione all’esecuzione. Nello specifico, con riferimento alla motivazione posta a base della rimessione, rileva la Corte che il processo esecutivo consiste in una sequenza di atti per la realizzazione del credito mentre le opposizioni integrano dei veri e propri giudizi: la diversità strutturale dei due tipi di procedimenti non può essere ricondotta ad unità sul presupposto dell’esigenza di celerità come ad entrambi.

Pienamente condivisibile la decisione della Corte che conferiva un indirizzo consolidato.

Settembre 2016

Nota a cura Avv. Oropallo

Il valore probatorio della ricevuta di avvenuta consegna

La Corte di Cassazione con sentenza n. 15035 del 21/7/2016 si è pronunciata sul valore probatorio della ricevuta di avvenuta consegna della PEC. Richiama la Corte il DM 44/2011 che stabilisce che                             “le comunicazioni e le notificazioni telematiche su iniziativa del cancelliere si intendono perfezionate nel momento in cui viene generata la ricevuta di avvenuta consegna da parte del gestore di posta elettronica certificata del destinatario”. La trasmissione telematica, in forza del rinvio all’art. 48 c. 2 D.Lg. n. 82/2005, equivale alla notificazione per mezzo della posta per cui la ricevuta di avvenuta consegna (RAC) fornisce la prova al mittente che il suo messaggio di posta elettronica sia effettivamente pervenuto all’indirizzo elettronico dichiarato dal destinatario. La RAC, fino a prova contraria, costituisce dunque prova idonea che il documento sia effettivamente pervenuto nella casella di posta elettronica del destinatario. Tale notifica avviene senza alcuna cooperazione da parte di un pubblico ufficiale, come nel caso di notifica a mezzo posta per cui, nel caso in cui il destinatario contesti la ricezione, non è obbligato a proporre querela di falso, essendo sufficiente che alleghi prova certa che dimostri che il messaggio non sia pervenuto alla sua casella postale.

Settembre 2016

Nota a cura Avv. E. Oropallo

La riforma della magistratura onoraria

Sulla G.U. n. 99 del 29.4.2016 n. 57 è stata pubblicata la l. n. 57/16 del 28.4.2016 “contenente delega al Governo per la riforma organica della magistratura onoraria e altre disposizioni sui giudici di pace”.

Innanzitutto, non vediamo le ragioni di questa delega: trattandosi di una legge di riforma della magistratura onoraria – che tanta parte ha nell’organizzazione della giustizia in Italia – sembrava corretto arrivare ad una legge che fosse condivisa da tutti i gruppi parlamentari, all’esito di un confronto democratico su una legge che dovrebbe costituire un pilastro nella riforma della giustizia. Ma ormai il governo in Italia, frutto di compromessi e più spesso espressione di consorterie di potere, non riesce più a concepire quale sia il rispetto dei poteri costituzionalmente garantiti. E così spesso il passaggio in Parlamento per l’approvazione di una legge si è trasformato in una passerella di belle donne e arena di scontri fumosi e roboanti ma senza alcuna chiarezza politica. Motivo per cui, appena entrata in vigore la legge, i Giudici di Pace hanno incrociato le braccia dal 6 all’11 giugno. L’atto di proclamazione dello sciopero è un atto di accusa contro la scelta governativa lamentando i vertici della categoria che “la legge delega di riforma della magistratura cd. onoraria va esattamente nella direzione opposta da quanto promesso negli incontri di mera facciata, avuti negli ultimi due anni”. L’associazione dei magistrati onorari accusa il Governo di aver fatto ricorso ancora una volta a scelte non condivise dall’associazione in un clima di dichiarata ambiguità rimproverando al Governo – in violazione del principio comunitario di non discriminazione – di aver posto tutti gli oneri contributivi a loro carico, di confermare una delega in bianco nella determinazione dei compensi dei magistrati di pace e onorari e di aver affidato il coordinamento dell’attività dei Giudici di pace al Presidente del Tribunale.                     Un sistema di controllo non gradito ma, a nostro avviso, efficace se effettivamente funzionasse anche perché la preparazione dei magistrati onorari, spesso privi di precedenti esperienze giudiziarie, è carente sotto il profilo professionale e criticabile sotto il profilo dell’affidamento. Sarebbe stato opportuno destinare un fondo speciale per coprire le spese di formazione e aggiornamento soprattutto dei giovani che chiederanno di coprire questi incarichi. E non saranno pochi, visto che è sempre più raro per i giovani avviare ex novo un’attività professionale che richieda una preparazione adeguata e la disponibilità di discrete risorse finanziarie. I problemi di fondo restano anche perché si vorrebbe una riforma ma senza spese e ciò non farà che abbassare da una parte la professionalità di chi opera questa scelta e dall’altra rendere un servizio agi utenti sempre più scadente. Per semplificare, avremo un sistema giudiziario che destinerà poche risorse alla magistratura onoraria andando a rafforzare quei settori – come quello societario – nei quali è necessario assicurare rapidità nelle decisioni, come richiede da tempo l’imprenditoria italiana.

Nei prossimi mesi, avremo modo di valutare più ampiamente gli effetti di questa ennesima manovra nella scia del folto elenco delle mini-riforme, sempre in corso revisione, che affossano ogni prospettiva di certezza del diritto.

Giugno 2016

Nota a cura avv. Oropallo

Le specializzazioni forensi: prima parziale modifica del regolamento

Con sentenza del 14.4.2016 il TAR Lazio ha parzialmente accolto i diversi ricorsi presentati dall’ANAI, OUA e ANF, Ordini Forensi e singoli avvocati presentati contro il regolamento specializzazioni. In particolare il TAR ha respinto in blocco ben sei dei motivi posti a base del ricorso, accogliendo solo il terzo dei motivi con il quale i ricorrenti hanno censurato l’art. 3 del regolamento concernente la individuazione dei settori di specializzazione la quale a giudizio dei ricorrenti – si legge in sentenza “sarebbe intrinsecamente irragionevole ed arbitraria oltre che illogicamente omissiva di discipline giuridiche oggetto di codificazione o di discipline oggetto di giurisdizioni dedicate”.

La prospettazione – ritiene il TAR – deve essere condivisa…L’incompletezza dell’elenco era stata già rilevata dal Consiglio di Stato”, decidendo dunque di annullare l’art. 3 del regolamento per cui questo articolo andrà riscritto facendo spazio ad altre specializzazioni, adottando un criterio più organico.

Non nasconde la sua soddisfazione l’ANAI che in un comunicato stampa ha ribadito che “il TAR Lazio ha sostanzialmente demolito il regolamento sulle specializzazioni che dovrà essere rifatto dal Ministero della Giustizia”.

L’ANF auspica che “si possa realizzare quel momento di reale confronto che è mancato nel corso di tutto l’iter di formazione del regolamento annullato oggi dal TAR”.

Chi si era pronunciato contro questo ricorso – associazioni specialistiche in prima fila – scrivono che la sentenza del TAR Lazio dimostra “il completo fallimento del tentativo di affossare il regolamento sulle specializzazioni, che viene confermato nel suo impianto generale”.

Apparentemente, tutti sembrano soddisfatti di questa sentenza: sia i ricorrenti per il risultato ottenuto sia le altre parti per quello che è stato confermato. Perché tutta questa battaglia intorno a questo regolamento sulle specializzazioni? Innanzitutto non nascondiamo il timore che si possa creare una frammentazione senza che si proceda a migliorare la preparazione generale dell’avvocatura.

Il conseguimento della specializzazione presuppone un lavoro assiduo di ricerca teorica, di studio accompagnato da un approfondimento delle tecniche del processo, delle specificità del settore, e non solo degli aspetti tecnici ma anche a tener conto di quelli che sono gli invitabili riflessi umani e sociali. Qualche commentatore ha ricordato come stranamente non sia stato previsto il conseguimento di una specializzazione nel settore delle immigrazioni. In particolare, manca, a nostro avviso, qualsiasi riferimento ai nuovi settori emergenti dei diritti civili, della difesa contro le discriminazioni sempre più laceranti del tessuto sociale. Bisogna fare uno sforzo per rispondere anche a queste nuove realtà sociali che prevedono la conoscenza delle leggi nazionali ed europee, degli ordinamenti giuridici di altri Stati – all’interno e all’esterno della UE – per dare un’assistenza più qualificata a quei soggetti spesso dimenticati dal legislatore ma che son quelli più a rischio sotto il profilo sociale ed economico.

Ritengo che questa sia un’esigenza molto spesso dimenticata ma i conflitti sociali e la difesa dei diritti delle minoranze e dei soggetti più deboli socialmente esigono una preparazione del difensore a 360 gradi. La sfida della globalizzazione è anche una sfida fatta di cambiamenti e un’avvocatura del terzo millennio non può presentarsi impreparata a questa sfida.

Aprile 2016

Nota a cura Avv. E. Oropallo

La legge Pinto sotto la lente della Consulta

La Corte Costituzionale è stata chiamata a pronunciarsi sulla questione di legittimità costituzionale dell’art. 2 c. 2 bis  e 2 ter della legge Pinto come aggiunto dall’art. 55 comma, lett. a) n. 2) del d. l. n. 83/12 convertito con modificazioni dall’art. 1, comma 1, della l. n. 134/2012, in riferimento agli artt. 3, comma 1, art. 111 comma 2 e 117 comma 1 Costituzione, in relazione all’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.

In effetti, la Consulta, come ipotizzato dal Giudice a quo che aveva sollevato eccezione di legittimità degli articoli richiamati, ha ritenuto fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 2 bis, nella parte in cui determina in tre anni la ragionevole durata del procedimento regolato dalla l. n. 89/2001 nel primo e unico grado di merito. Sulla scorta della giurisprudenza consolidata della Corte EDU la Consulta ha ribadito il principio di diritto secondo il quale lo Stato è tenuto a concludere il procedimento volto alla equa riparazione del danno da ritardo maturato, nel termine massimo di due anni, in conformità agli artt. 111 comma 2 e 117 comma 1 Cost..

In breve il giudizio ex lege Pinto in primo grado non potrà avere una durata superiore a due anni mentre la Corte ha ritenuto non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art 2, comma 2 bis, nella parte in cui determina in un anno la ragionevole durata del giudizio di legittimità previsto dalla l. n. 89/2001.

La sentenza della Corte Costituzionale (la n 36/2016 depositata il 19.2) segna un altro punto a favore del principio del giusto processo. Alla luce della esperienza di tutti i giorni, si dovrà fare i conti con i tempi delle Corti d’Appello che spesso appaiono inadeguate a gestire questo carico di lavoro, malgrado siano state istituite delle sezioni apposite per trattare i processi ex lege Pinto senza contare che il giudizio in Cassazione supera largamente i due anni.

Marzo 2016

(nota a cura avv. E. Oropallo)

Rimborsi spese e gettoni di presenza per i componenti del CNF

Con un regolamento adottato alla chetichella, il CNF si è auto assegnato, per la prima volta nella sua storia, compensi per l’attività istituzionale svolta che partono da un minimo di 50.000 euro per vicepresidente e tesoriere ad un massimo di 90 mila euro per il presidente, passando per i 70 mila del segretario. Somme che si aggiungono al rimborso spese.

Ai consiglieri “semplici” sono riconosciuti solo 650 euro per ogni seduta, sempre al netto delle spese rimborsate. Una novità che ci lascia davvero perplessi che va contro il principio della gratuità della funzione e del contenimento dei costi.

Un vero e proprio “cadeau” che ci getta ombre sull’operato dei componenti del Consiglio per cui l’OUA ne ha richiesto la sospensione in quanto adottato il provvedimento senza l’opportuno confronto con l’OUA e con i singoli Consigli degli Ordini e delle Associazioni maggiormente rappresentative. Grave precedente che potrebbe far da apripista anche a richieste analoghe da parte degli Ordini.

Crediamo che alla vicenda vada data la massima pubblicità in seno alla categoria perché si pervenga ad annullare questa delibera che contrasta con i principi di qualità e di trasparenza cui si è sempre ispirato fino ad oggi l’operato dei nostri organi rappresentativi.

Marzo 2016

(nota a cura avv. E. Oropallo)

Ennesima mini-riforma del processo civile

Abituato, ormai da decenni, il legislatore – o meglio dire il Governo – ad interventi-tampone, all’orizzonte si profila una nuova mini-riforma.

La Commissione Giustizia della Camera dei Deputati in data 16.2.2016 ha dato via libera al disegno di legge n. 2953. L’obiettivo è di rendere più celere il processo civile.                        Si prevede un allargamento delle competenze delle sezioni specializzate in materia d’impresa. Ancora una volta il Governo attuale punta ad un rafforzamento della struttura che si occupa della materia societaria quasi ad identificare una corsia di preferenza per le vicende legate alla vita economica.

Per il diritto di famiglia si prevede la creazione di sezioni specializzate sia presso le Corti d’Appello che presso i Tribunali dei Minorenni ai quali resterà la competenza in materia di minori stranieri non accompagnati. Insomma, una sorta di giustizia minore accompagnata da un contenimento delle richieste di indennizzo per irragionevole durata del procedimento. Obiettivo già in parte preceduto dalle recenti modifiche della legge Pinto già a rischio di incostituzionalità.

Ancora si parla di rafforzare l’istituto del tentativo di conciliazione del giudice ai sensi art. 158 bis c.p.c. senza chiedersi ovviamente perché questa facoltà riservata al Giudice ha avuto scarsa o nessuna applicazione da parte del Giudice.

Di luce ne vediamo ben poca in fondo al tunnel!….

Marzo 2016

(nota a cura Avv. E. Oropallo)

Nuove modifiche della Legge Pinto

Come se non fosse bastata l’ultima modifica della legge Pinto (l. 134/12), oggi è intervenuta anche la legge di stabilità a rendere più difficile il percorso per ottenere un indennizzo per l’indebita durata del processo. L’obiettivo del Governo infatti non è quello di utilizzare le risorse per ridurre i tempi dei processi e mettersi al passo con l’Europa ma quello di ridurre i costi.

Rispetto alle norme attuali che prevedono un indennizzo da 500 a 1.500 Euro per ogni anno di ritardo, si passa da un minimo di 400 ad un massimo di 800 Euro ma vi può essere un’ulteriore decurtazione del 20% se le parti nel processo sono più di 10 o del 50% se sono più di 50. Senza tener conto che la Corte EDU ha indicato parametri diversi e superiori la cui applicazione era ritenuta ormai recepita anche dalle Corti nazionali. E qui v’è il rischio di andare ad ingolfare di nuovo il lavoro della CEDU nel caso di un indennizzo ritenuto insoddisfacente. Ma altri paletti sono posti dalla legge di stabilità.

L’art. 1 bis e 2 stabilisce che chi, pur avendo esperito i rimedi preventivi di cui all’art. 1 ter – ha subito un danno patrimoniale o non patrimoniale a causa dell’irragionevole durata del processo – ha diritto ad un’equa riparazione. Quali siano questi “rimedi preventivi” lo chiarisce l’articolo successivo. Si tratta dell’avvio dell’azione nelle forme del procedimento sommario di cognizione di cui agli artt. 702 – bis e seguenti cpc. Ancora, è considerato rimedio preventivo la richiesta di passaggio dal rito ordinario a quello sommario ai sensi art. 183 bis cpc mentre nelle cause in cui non si applica il rito sommario, compresi i giudizi in appello, costituisce “rimedio preventivo” la presentazione di istanza di decisione a seguito di trattazione orale ai sensi art. 281 sexies cpc, sia  quando l’appello prevede un giudice monocratico, sia quando il Tribunale giudica in composizione collegiale. Insomma vi sono due categorie di cittadini: una prima che ricorrendo a questi rimedi preventivi potrà domani vedersi liquidato un indennizzo mentre altri cittadini che hanno scelto la forma ordinaria del processo non hanno alcuna possibilità di avvalersi della Legge Pinto. In effetti l’art. 2 – così come modificato – prevede l’inammissibilità della domanda per l’equa riparazione nel caso in cui il soggetto non abbia esperito i rimedi preventivi previsti dall’art. 1 ter.

Come è stato giustamente osservato, per quanto riguarda il processo civile, paradossalmente si chiede al cittadino di rinunciare al rito ordinario se vuole garantirsi la possibilità di chiedere eventualmente il risarcimento del danno in base alla legge Pinto. Un vero e proprio attacco al diritto di difesa perché come ha osservato l’avv. De Stefano questo vuol dire “castrare l’istruttoria in quanto l’abbandono del rito ordinario per il rito sommario comporta l’impossibilità di portare nuove prove, esponendo l’avvocato ad una azione di responsabilità allorquando la causa avrebbe richiesto una piena e compiuta istruttoria”.

Tutto ciò è davvero aberrante in quanto se la legge nazionale prevede di poter utilizzare il rito ordinario, non si può penalizzare chi intende farne uso. Insomma, da una parte continueremo ad avere una giustizia lumaca ma dall’altra avremo una nuova e illegittima limitazione del diritto riconosciuto sulla carta al cittadino di richiedere un indennizzo per la durata del processo.

E’ evidente come l’avvocatura non possa accettare questa scelta che penalizza pesantemente l’accesso alla giustizia, ponendo seri problemi anche sotto il profilo costituzionale e nel rapporto con le altre Corti europee, in primis con la Corte EDU. Speriamo che ci sia qualche giudice disposto a proporre un quesito alla Corte Costituzionale per esaminare la legittimità di questa norma. L’ultima sorpresa la riserva l’art. 5 sexies. Il comma 6 prevede che l’erogazione degli indennizzi agli aventi diritto avviene nei limiti delle risorse disponibili, mentre i punti 1) 2) 3) pongono a carico dell’avente diritto ulteriori passaggi che vengono ad allungare i tempi di pagamento, al termine dei quali l’amministrazione ha ancora 6 mesi di tempo per procedere ai pagamenti, sempre che sia completa la documentazione pervenuta all’ente (comma 5) per cui solo a scadenza di questo ulteriore termine gli aventi diritto finalmente potranno procedere agli atti esecutivi o proporre ricorso per l’ottemperanza del provvedimento, con ulteriore allungamento dei termini. Tengasi conto che la Corte EDU ha sanzionato l’Italia numerose volte anche per i ritardi accumulati nei pagamenti. Alla luce delle modifiche introdotte, anche quest’ultima chance verrà a mancare o ad essere praticata scarsamente. Insomma il quadro è completo: si continuano a limitare i diritti dei cittadini, in quanto lo Stato è incapace di riformare un sistema giudiziario che da molti anni è lo specchio dell’arretratezza culturale e politica di questo paese.

Febbraio 2016

(Avv. E. Oropallo)

Prescrizione anticipata della Lira

Recentemente la Consulta con sentenza del 5.11 n. 216/15 ha dichiarato la incostituzionalità del d.l. n. 201/2011 (cd. “decreto salva Italia”) convertito in legge n. 214/2011 nella parte in cui disponeva la prescrizione anticipata, con effetto immediato, delle lire ancora in circolazione alla data del 6/12/2011.

La pronuncia trae origine dalla rimessione del Tribunale di Milano nel corso di un giudizio in cui gli attori avevano chiesto la condanna della Banca d’Italia al pagamento del controvalore delle lire in loro possesso, oltre al risarcimento dei danni, dopo aver tentato invano di convertire le banconote in loro possesso in euro prima della scadenza del termine ordinario di prescrizione del 28 febbraio 2012.

La Corte rileva che la legge finanziaria 2013 stabiliva che le banconote e le monete in lire potevano essere convertite in euro presso le filiali della Banca d’Italia non oltre il 28.2.2012, scadenza del termine decennale di prescrizione stabilito a favore dell’erario.

La norma esaminata, scrive la Consulta, contrasta con il valore del legittimo affidamento il quale trova copertura costituzionale nell’art. 3 della Costituzione.

Non c’è dubbio che il quadro normativo preesistente alla disposizione dichiarata incostituzionale fosse tale da far ragionevolmente confidare nel mantenimento del termine originariamente fissato per legge né è ammissibile, come sostenuto dalla difesa dello Stato, che posizioni cosiddette possono essere sacrificate al dichiarato fine di ridurre il debito pubblico.

Sentenza giusta ma amara perché ancora una volta si assiste ad uno stravolgimento normativo che sacrifica il cittadino a fronte di un provvedimento “salva Italia” solo per risanare le casse dello Stato a spese, però, dei cittadini.

Sentenza certamente condivisibile che non produce, ahimè, alcun effetto utile per i cittadini che si sono trovati nella stessa situazione.

Fonte D. & G.

Novembre 2015

Nota a cura avv. E. Oropallo

E’ competente l’AGO a decidere sull’allontanamento del lavoratore extracomunitario

Così ha deciso la Cassazione con sentenza n. 13.570 del 2.7.2015.

Il caso. Un cittadino del Bangladesh all’arrivo in Italia presentava richiesta di asilo politico, cui successivamente rinunziava, in quanto il proprio datore di lavoro presentava domanda di emersione dal lavoro irregolare. A seguito della rinuncia formulata dal richiedente asilo politico, senza tener conto della domanda presentata dal datore di lavoro, il Questore emette un decreto di espulsione. Impugnato dal lavoratore innanzi l’AGO. Il Tribunale adito di Roma con sentenza del 21.5.2013 declina la propria giurisdizione a favore di quella amministrativa rilevando che “la controversia ha ad oggetto interessi legittimi e non diritti soggettivi”. Il provvedimento viene impugnato dall’interessato, innanzi al TAR Lazio che, con sentenza del 15.7.2014 solleva conflitto negativo di giurisdizione ritenendo che la controversia attiene alla legittimità dell’ordine di allontanamento, materia questa estranea alla giurisdizione amministrativa e spettante alla competenza del Giudice ordinario competente a valutare la sussistenza di eventuali cause di inespellibilità. La Cassazione con la sentenza richiamata rileva che l’art. 5 del d.lgs. del 2012 di attuazione della direttiva 2009/52/CE, prevede che, in caso di procedimento di regolarizzazione di lavoratori stranieri presenti nel territorio nazionale sancisce, comma 11, che, nelle more della definizione del procedimento, lo straniero non può essere espulso nei casi previsti dal comma 13 a meno che il provvedimento di espulsione non sia stato adottato a causa della pericolosità dello straniero per l’ordine pubblico o la sicurezza dello Stato. Ipotesi questa esclusa nel caso in esame in quanto il Questore si è limitato a chiedere l’espulsione del lavoratore extracomunitario perché privo del permesso di soggiorno che può essere concesso a seguito della regolarizzazione del lavoratore per cui non si può parlare di interesse legittimo ma di vero e proprio diritto soggettivo del richiedente per cui il decreto non può essere eseguito fino a quando non sia concluso il procedimento di emersione del lavoro irregolare.

(Fonte D&G del 3.7.2015)

Agosto 2015

Nota a cura Avv. E. Oropallo